Cop27, qualcosa si muove ma non abbastanza

Ambiente

di Daniele Moretti

I risultati con cui si chiude la COP27 in Egitto sono di per sé un ottimo esercizio per uscire dalla decennale tendenza a voler dare per forza una pagella al termine delle Conferenze delle Parti nei negoziati sul clima. Alcuni esiti rappresentano un passo in avanti importante, altri un deciso passo indietro, molte altre questioni sono rimaste semplicemente sul tavolo, in attesa di tempi migliori per discuterne

Il risultato del documento finale sull’istituzione di un fondo che aiuterebbe i Paesi poveri e vulnerabili a far fronte ai disastri climatici aggravati dai gas serra delle nazioni ricche, rappresenta una svolta su una delle questioni più controverse ai negoziati sul clima delle Nazioni Unite.

 

L'accordo sul Loss and Damage

Era da oltre 30 anni che i Paesi ricchi e industrializzati subivano il pressing delle nazioni in via di sviluppo perché fornissero una compensazione per i costi esorbitanti causati da tempeste distruttive, ondate di calore e siccità legate all'aumento delle temperature.

Chi si opponeva - Stati Uniti, Unione Europea (anche se con diverse sfumature) e altri Paesi ricchi, aveva a lungo bloccato l'idea per paura di dover affrontare una responsabilità illimitata per le emissioni di gas serra che stanno causando il cambiamento climatico, dando il via a una serie infinita di richieste di danni.

Ecco spiegato come mai l'accordo per il “Loss and Damage” (perdite e danni) firmato a Sharm ha messo bene in chiaro che i pagamenti non devono essere visti come un'ammissione di responsabilità. Sarà un comitato con rappresentanti di 24 paesi a cercare di capire esattamente, nel corso del prossimo anno, quale forma dovrebbe assumere il fondo, quali paesi e istituzioni finanziarie dovrebbero contribuire e dove dovrebbero andare i soldi, insomma rimangono parecchi dettagli ancora in via di definizione.

Da un punto di vista squisitamente politico, se è giusto salutare l’accordo come un passo importante, va però ricordato che se non si fosse raggiunto, sarebbe stato un vero disastro sulla strada della negoziazione climatica. Il dibattito su un fondo per “perdite e danni” nell'agenda formale della Cop non c'era proprio. Le nazioni in via di sviluppo hanno lottato per prime per inserirlo. Hanno trasformato una lotta per l’esistenza in una questione di giustizia: un vertice tenuto nel continente africano che si concludesse senza affrontare in modo almeno sufficiente “Loss and Damage” sarebbe stato un fallimento morale.

D’altronde, da un punto di vista tecnico, permangono molti problemi. Non vi è alcuna garanzia che i Paesi ricchi depositino denaro nel fondo. Oltre un decennio fa, gli Stati Uniti, l'Unione Europea e altri ricchi emettitori si sono impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari all'anno in finanziamenti per il clima entro il 2020 per aiutare i paesi più poveri a passare all'energia pulita e ad adattarsi ai futuri rischi climatici attraverso misure come la costruzione di dighe marine. Hanno fallito a raggiungere l’obiettivo (oggettivamente alla portata) ogni anno.

"Abbiamo il fondo, ma abbiamo bisogno di soldi per renderlo utile", ha detto Mohamed Adow, direttore esecutivo di Power Shift Africa, un gruppo che mira a mobilitare l'azione per il clima in tutto il continente. “Quello che abbiamo è un secchio vuoto. Ora dobbiamo riempirlo in modo che il sostegno possa arrivare alle persone più colpite che stanno soffrendo in questo momento per mano della crisi climatica”.

 

Passo indietro sulle cause del Climate Change

Per dirla con Manuel Pulgar-Vidal, presidente del vertice nel 2014 e ora responsabile del clima per il World Wide Fund for Nature, "L'accordo su perdite e danni concordato è un passo positivo, ma rischia di diventare un fondo per la fine del mondo se i Paesi non si muovono più velocemente per ridurre drasticamente le emissioni".

Il nuovo accordo sul clima registra un passo falso, o un passo indietro, sulla prima linea nella lotta al climate change, la mitigazione, ovvero come pensiamo di affrontare le emissioni di gas serra che sono la causa principale della crisi. L'accordo non è andato molto oltre ciò che i paesi hanno concordato l'anno scorso ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite a Glasgow.

Il nuovo accordo sottolinea che i paesi dovrebbero sforzarsi di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius, al di sopra dei livelli preindustriali. Oltre quella soglia, gli scienziati hanno avvertito che il rischio di catastrofi climatiche aumenta notevolmente. La differenza tra 1,5° e 1,6°, per capirsi, si traduce in milioni di persone impattate da eventi estremi meteorologici come quelli che hanno caratterizzato il 2022. Il fatto che all'inizio del vertice alcuni negoziatori temessero che i colloqui avrebbero abbandonato l'attenzione su quell'obiettivo, non deve farci tirare un sospiro di sollievo.

Le attuali politiche dei governi nazionali metterebbero il mondo sulla buona strada per un riscaldamento molto più caldo, da 2,1° a 2,9° in questo secolo, rispetto ai livelli preindustriali. Per rimanere a 1,5° i Paesi dovrebbero tagliare le loro emissioni di combustibili fossili all'incirca nella metà di questo decennio. Tecnicamente fattibile, probabilmente irraggiungibile.

A Sharm non si è riusciti a prendere un impegno sui combustibili fossili. L'India e più di 80 altri paesi volevano un linguaggio che avrebbe richiesto un "ritiro graduale" di tutti i combustibili fossili. Non solo carbone, ma anche petrolio e gas, andando oltre l'accordo di Glasgow, che prevedeva una "riduzione graduale" del solo carbone. Uno sforzo bloccato dai maggiori produttori di petrolio come il Canada e l'Arabia Saudita, così come dalla Cina, secondo fonti vicine ai negoziati.

Frans Timmermans, il massimo responsabile climatico dell'Unione Europea, ha affermato che l'accordo è stato molto al di sotto di ciò che era necessario ed è stato un segno del crescente divario tra la scienza del clima e le politiche climatiche nazionali. Per il vicepresidente della Commissione Europea troppi Paesi hanno bloccato le misure necessarie per affrontare il riscaldamento globale: "Gli amici sono amici solo se ti dicono anche cose che potresti non voler sentire. Questo è il decennio decisivo, ma quello che abbiamo di fronte non è un passo avanti sufficiente per le persone e il pianeta".

Lotta al Greenwashing

Si è parlato molto della presenza dei 636 lobbisti dei combustibili fossili e degli amministratori delegati di BP, Shell, Total e Occidental, a spasso tra i corridoi della COP desiderosi di esibire le loro credenziali ecologiche. Certo, sulle rive del Mar Rosso sono venuti, legittimamente dal loro punto di vista, qui per un motivo: la transizione energetica rappresenta una chiara minaccia per le loro attività se guidata da scienza e politica e non dai loro consigli di amministrazione.

Il vertice di Sharm ha decretato che le aziende dovranno rispondere alle nuove regole net zero delle Nazioni Unite e garantire che i loro piani riducano davvero le emissioni e non siano solo una sverniciata di verde, se vogliono essere una parte credibile della risposta globale al cambiamento climatico. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha parlato di "tolleranza zero per il greenwashing Net Zero". Verrà creata una nuova task force per promuovere la regolamentazione degli impegni net zero aziendali nei Paesi di tutto il mondo.

Nel frattempo, i rischi di contenzioso stanno aumentando rapidamente per i governi e le aziende che non rispettano l'accordo di Parigi. Ci sono state oltre 2000 cause legali climatiche che hanno già creato un precedente legale. Riguardano questioni come obiettivi climatici inefficienti, inquinamento ambientale, violazioni dei diritti umani, greenwashing etc. Prende sempre più forma l’idea che l'azione per il clima è un dovere legale, non una scelta volontaria.

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