I microframmenti sono presenti in pesci e molluschi, ma anche nel sale marino e nell’acqua potabile. A rivelarlo sono alcune recenti ricerche a livello mondiale. L’obiettivo per il futuro: stabilire gli effetti sulla salute umana. LO SPECIALE - VIDEO
Nei pesci e nei molluschi, ma anche nel sale marino e nell’acqua potabile. Le particelle di plastica sono sempre più presenti sulle nostre tavole, sia nei piatti che nei bicchieri. A dimostrarlo sono numerosi studi condotti negli ultimi anni che evidenziano come la presenza di questa sostanza negli oceani abbia dei riflessi sulla nostra alimentazione. Dall’Europa agli Stati Uniti, ecco alcune tre le ricerche recenti più significative condotte in questo ambito.
La plastica nel sale da cucina
A portare la plastica nei piatti non sono solo i pesci e i molluschi che la ingeriscono, ma è anche il sale. L’ultimo approfondimento scientifico in questo senso è stato fatto dall’Università di New York, a Fredonia, e da quella del Minnesota, che a inizio settembre 2017 hanno mostrato in anteprima al The Guardian i loro risultati. Nell’indagine, i ricercatori hanno sondato la presenza di plastica nel sale, nella birra e nell’acqua potabile. Nello specifico, i tipi di sali analizzati sono stati 12, tra cui dieci tipi di derivazione marina. Dalle rilevazioni si è arrivato a stabilire che ogni americano ingerisce in media 660 particelle di plastica ogni anno. E la cifra potrebbe essere anche superiore, perché i dati delle autorità sanitarie mostrano che la maggior parte degli statunitensi consuma più sale di quanto raccomandato. Sherri Mason, a capo della ricerca, ha ricordato che la plastica è "onnipresente, nell'aria, nell'acqua, nei pesci che mangiamo, nella birra che beviamo. È ovunque”. Ma quello statunitense non è l’unico esempio di studio condotto sul sale: ad agosto del 2017, un team di ricercatori spagnoli ha studiato 21 tipi di sale da cucina e su ognuno di questi ha trovato particelle di plastica, come rivelato dall’indagine pubblicata sul Scientific Reports in Nature. Mentre già nel 2015, in Cina, erano state trovate microplastiche (frammenti di diametro o lunghezza inferiore ai 5 millimetri) in 15 diversi marchi di sale venduto nei supermercati. Le particelle, in questo caso, derivavano da cosmetici, scrub per il corpo o bottiglie.
Anche l’acqua potabile è contaminata
Gli stessi ricercatori dell’università di New York e del Minnesota sono stati coinvolti anche nella ricerca sulle microplastiche nell’acqua potabile. Nello studio, condotto su iniziativa di Orb Media - un sito di informazione no profit di Washington che ha realizzato il progetto multimediale Invisibles, the plastic we eat - si analizzano le acque di cinque continenti. Sono stati prelevati 159 campioni di 14 Paesi (nel caso dell’Italia, a Pavia) e l’83% di questi conteneva fibre di microplastica. Negli Usa è stato rilevato uno dei più alti tassi di contaminazione: il 94.4% dei campioni, con il coinvolgimento anche di acqua prelevata al Congresso o dal celebre ristorante Trump Grill. Per l’Europa la percentuale è del 72.2%, mentre in India i campioni contaminati sono l’82.4%. Alti anche i livelli del Libano (93.8%) e dell’Indonesia (76.2%), così come quelli dell’Uganda (80.8%). Uno studio a parte è stato poi condotto in Irlanda, sotto la supervisione della dottoressa Anne Marie Mahon del Galway-Mayo Institute of Technology. Anche in questo caso sono stati trovati frammenti di plastica nell’acqua potabile. A preoccupare l’esperta sono due fronti: le particelle piccolissime di plastica presenti e le sostanze chimiche che la plastica può ospitare, così come i batteri che possono annidarsi nei minuscoli frammenti.
Il caso dei pesci: plastica anche nel loro cervello
Non si hanno ancora prove certe che una spigola contaminata da plastica che finisce nei nostri piatti possa avere conseguenze sulla salute umana. Ma quello che è certo è che sono sempre più le specie marine che ingeriscono questa sostanza. Si stima infatti che siano circa 260mila le tonnellate di rifiuti plastici nei mari del mondo. Di queste, molte vengono in contatto con i pesci che poi a loro volta sono pescati e mangiati dall’uomo. Uno degli ultimi riscontri scientifici in questo senso, arriva da uno studio della Lund University, pubblicato sulla rivista Scientific Reports. I dati mostrano come le nanoparticelle di plastica riescano a superare la barriera sangue-cervello nei pesci e ad accumularsi quindi nel loro tessuto cerebrale. Tommy Cedervall, autore della ricerca, ha sottolineato come questo sia il primo caso in cui viene dimostrato che c’è una contaminazione del genere, che avviene in tutta la catena alimentare marina: ad esempio dalle alghe, o dal plancton, verso pesci più grandi. Non solo, la presenza della sostanza ha conseguenze sul comportamento dei pesci: si muovono ed esplorano meno, e il loro metabolismo può rallentare. Ma l’indagine non si è fermata qui: con una visione d’insieme, lo studio arriva ad affermare che siano oltre 660 le specie marine che subiscono le conseguenze della presenza di plastica nei mari, che si tratti di ingestione, strangolamento o inquinamento.
Dal tonno agli scampi
Sulle specie contaminate da plastica aveva lavorato anche Greenpeace che, con il suo rapporto Plastic in seafood (agosto 2016) aveva individuato almeno 170 organismi marini che certamente ingeriscono i frammenti plastici. E, fra di loro, ci sono pesci che l’uomo mangia con frequenza come il tonno, il pesce spada, la spigola, i granchi, le aragoste o gli scampi. Per queste specie, l’ingestione avviene attraverso la bocca. Mentre per le cozze, le vongole o altri molluschi, la contaminazione c’è nel momento in cui questi filtrano l’acqua di cui si nutrono, senza riuscire a eliminare le microplastiche. Degli studi effettuati sulle cozze delle coste brasiliane, per fare un esempio, hanno evidenziato la presenza di piccoli frammenti nel 75% dei campioni analizzati. E vale lo stesso per l’83% degli scampi sulle coste britanniche, o per il 18.2% di pesci commerciali (tonno e pesce spada) del Mediterraneo (L’INFOGRAFICA).
Con i molluschi mangiamo ogni anno oltre 11mila frammenti di plastica
E sui molluschi non arrivano notizie migliori dal Belgio, dove uno studio della Ghent University ha rivelato che le persone che mangiano regolarmente cozze, ostriche e altri esemplari ingeriscono ogni anno più di 11mila frammenti di plastica che si accumulano nell’organismo col rischio di danni a lungo termine.
Il gruppo di ricerca, diretto da Colin Janssen, ha analizzato esemplari di Mytilus edulis (cozze comuni) e Crassostrea gigas (ostriche del Pacifico). Dallo studio è emerso che i molluschi, prima di arrivare sulle nostre tavole, negli oceani assorbono e filtrano l’acqua contaminata (le cozze ad esempio arrivano a 20-25 litri al giorno) e così facendo ingeriscono anche frammenti di plastica inferiori a un millimetro: la maggior parte vengono espulsi ma, in media, ogni cozza ne contiene almeno uno e, secondo l’indagine belga, finiscono sia nel guscio che nella carne, con circa un frammento per grammo.
Secondo gli esperti, il 99 per cento delle particelle attraversa il nostro corpo senza conseguenze ma, il restante 1% per cento viene assorbito dai nostri tessuti. Entro la fine del secolo, dicono gli studiosi, chi mangia abitualmente pesce e molluschi potrebbe aver ingerito fino a 780mila particelle di plastica all’anno, di cui 4mila saranno assorbite dall’apparato digerente. “Abbiamo dimostrato che questi frammenti entrano nel nostro corpo e possono rimanerci per un po' di tempo - ha spiegato Janssen a Sky News - Quindi abbiamo bisogno di capire che fine fa quella plastica. Viene inglobata e 'dimenticata' dal corpo oppure causa infezioni o altri danni? Non lo sappiamo, ma dovremmo saperlo”.
Per cercare di rendere più “reali” i numeri dello studio della Ghent University, la Ong francese Expédition Med ha tentato di applicarli alla Braderie, una festa popolare di Lille che offre ai presenti fino a 500 tonnellate di di cozze. Secondo l’organizzazione, dato che la carne rappresenta il 30% del peso del mollusco, 500 tonnellate equivalgono a 150 tonnellate di polpa, ovvero a 1.500.000 grammi e ad altrettanti microframmenti finiti negli stomaci dei partecipanti alla fiera.
Ingannati dall’odore della plastica
Ma perché, oltre ai casi accidentali, la fauna marina ingerisce la plastica? Uno dei motivi, secondo uno studio americano pubblicato sulla rivista Proceedings of the Royal Society B, è l’odore che i frammenti acquisiscono stando nell’acqua degli oceani, simile a quello del cibo. I ricercatori hanno pescato e trasportato nell'acquario di San Francisco sei banchi di 200-400 acciughe e hanno somministrato loro del krill, organismo tipico dell’alimentazione dei pesci, e del propilene lasciato per tre settimane al largo del Bodega Marine Laboratory dell'università della California. Gli animali li hanno mangiati entrambi, ignorando solo alcune particelle di plastica che erano state lasciate “pure”, senza contaminazioni marine: quindi, spiegano gli studiosi, ad attrarre le acciughe non è la plastica in sé, ma le alghe e i batteri che si aggregano ai frammenti rendendoli invitanti e del tutto simili al cibo.