Il Buio su Parigi: il racconto di una città nei giorni del terrore

Mondo

Giovanna Pancheri

Particolare della copertina del libro di Giovanna Pancheri
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In un libro, edito da Rubbettino, Giovanna Pancheri racconta le lacrime, il dolore e la rabbia della capitale francese dopo gli attentati del 2015. L'ESTRATTO

Il tempo previsto per oggi è inquietudine crescente seguita da terrore conclamato.
Chuck Palahniuk, Diary

Ho letto Diary di Chuck Palahniuk da poco, e quando mi sveglio, dopo scarne e difficili ore di sonno, la mattina del 10 gennaio questa frase continua a girarmi in testa. È davvero finita? Ce lo chiediamo senza bisogno di parlare anche con Gaetano quando passa a prendermi in taxi la mattina in albergo. La stanchezza e la preoccupazione sono nei suoi occhi e so di avere anch’io lo stesso sguardo.

Decidiamo di passare nuovamente di fronte alla sede di «Charlie Hebdo» per le prime dirette del mattino. I fiori sono tanti, ma le persone pochissime. Anche qui come a Place de la République sono apparsi i primi bigliettini con tre parole che rivedrò tornare con forza a novembre: «Même pas peur» ovvero «Senza paura». Eppure, questo incrocio di rue Nicolas Appert, oggi deserto, mostra che la paura lentamente si sta insinuando con i suoi tentacoli invisibili ma soffocanti. La moglie di Coulibaly, Hayat Boumedienne, è al momento considerata ancora in fuga. Si sa che è stata un anello fondamentale. Tra lei e la moglie di Cherif Kouachi, Izzana Hamyd, solo nell’ultimo anno c’erano stati oltre 500 contatti telefonici. Le due donne venivano usate come copertura da Cherif e Amedy per sentirsi regolarmente, ma a differenza di Izzana, che già nei primi interrogatori di quei giorni aveva preso le distanze dalle azioni del marito, Hayat è compagna complice e fiera.

Dalle foto in bikini abbracciata al suo uomo si passa in poco tempo a quelle in niqab nero, mentre impugna minacciosa una balestra. Le immagini la ritraggono in un bosco, un campo di addestramento improvvisato, per una guerra che lei sembra determinata a combattere, come raccontano i suoi occhi: una fessura di astio nel taglio del velo integrale portato con fierezza. Lei aveva percorso al fianco del marito il sagrato di odio che porta al radicalismo, lo aveva accompagnato più volte a Murat, nella regione di Cantal, per rendere visita anche insieme a Cherif Kouachi al loro ispiratore di odio, Djamel Beghal.

Di questa donna, moglie, amante e sorella di terrore, la mattina del 10 gennaio, a 24 ore dalla grande Marcia repubblicana che il giorno dopo avrebbe portato per le strade di Parigi centinaia di migliaia di persone, non ci sono ancora tracce. L’incognita Hayat perseguita i miei pensieri, affiora e mi immobilizza ogni volta che arriva una chiamata dalla redazione… Lei è pronta a colpire di nuovo, il problema è: quando? Mando un po’ di sms alle mie fonti in Francia e in Italia per capire a che punto sono le indagini, quando mi squilla il telefono. È Roberto Lorefice, il responsabile del servizio centrale questa mattina: «Giò, perché invece di stare di fronte a “Charlie”, non vai da “Charlie”? I sopravvissuti del 7 gennaio come sai stanno preparando il nuovo numero della rivista che uscirà mercoledì prossimo e stanno lavorando nella sede di “Liberation” che gli ha messo a disposizione una parte degli uffici, magari riesci a entrare».
«Certo hai ragione, vado, ma non ti assicuro nulla».

Attacco, pensando che anche per oggi ho una missione velleitaria da compiere. Entrare a «Libération»? In questo momento? Chiamo Marc Semo, caporedattore esteri di «Libération», un caro amico del mio collega Moreno, e mi conferma quello che in fondo già so. «È molto difficile, Giovanna, hanno inasprito ulteriormente la sicurezza. Ieri, come sai, è venuta una troupe della France Presse per fare un reportage sulla redazione di “Charlie”al lavoro da passare a tutte le altre televisioni e agli altri giornali, ma questo prima dell’attentato all’Hyper Cacher. Dopodiché non hanno più fatto salire nessuno. Io non sono riuscito a far entrare neanche i miei amici di France 2. So che la CNN ci sta tartassando, ma nulla. Non decidiamo noi, il palazzo è sotto altissima sorveglianza, comunque provo a lasciare il tuo nome alla reception, e poi se rimani qui tutto il giorno, magari puoi intercettare quelli di “Charlie” quando vanno via stasera. Chiamami quando sei giù».

Arrivata al numero 11 di rue Béranger posso contare almeno tre camionette della polizia. Di fronte alla porta di ingresso ci sono due uomini dei servizi. In queste situazioni ho imparato che è l’atteggiamento che fa la differenza, sfodero quindi il più sicuro dei miei sorrisi e mi dirigo verso l’entrata. Ovviamente mi fermano. «Buongiorno, ho un appuntamento con Marc Semo, questa è la mia tessera stampa; certo che fa freddo oggi, non so davvero come fate voi senza cappotto!», dico al più grosso dei due, un omone di colore con gli occhi che ridono. «Marc? È un mio amico aspetti che lo chiamo così verifichiamo subito; però lo sa che comunque non è detto che possiamo farla entrare?». «Ma come no? – mai mostrare esitazione –. Marc mi ha detto che non c’erano problemi, dobbiamo intervistarlo in diretta tra mezz’ora». «Niente da fare, non mi risponde; ha detto tra mezz’ora? Ma per che testata lavora lei?». «La televisione italiana; comunque riprovi forse a quest’ora è alla riunione di redazione. Ma lei come si chiama?». «Philippe. Ah, l’Italia…». «Sì anche Marc la ama, sa che parla benissimo italiano? Su, Philippe, mi dia una mano, dovrebbe esserci il mio nome alla reception…». Philippe mi guarda e strizza l’occhio: sono dentro.

La redazione di «Charlie» è ospitata nei locali dell’ultimo piano, l’ottavo. Gli ascensori sono bloccati per ragioni di sicurezza e con Gaetano ci avviamo a piedi portando l’attrezzatura, ma facciamo le scale a due a due. L’adrenalina è tornata, mangia spazio alla stanchezza.
Arrivati al sesto piano, Marc ci viene incontro: «Che bello, ci sei riuscita! ». «Se non fosse stato per te non sarebbe stato possibile, grazie!».
«Vieni ti accompagno su e ti spiego com’è la situazione». Noto che la maggior parte degli uffici che incrociamo nel nostro percorso è vuota. «Sai, molti di noi non vengono in redazione in questi giorni, il clima è pesante, e poi quasi tutti i cronisti sono in giro per Parigi a cercare storie, inutile dirlo a te: sono momenti di super lavoro», mi spiega Marc mentre affrontiamo la salita. Gli ultimi due piani, infatti, ricordano un po’ la scala rotonda e piatta delle scuderie del Quirinale, si gira intorno alla tromba dell’ascensore e sulla destra si aprono i vari open space fino ad arrivare al bar, o meglio alla foresteria con i distributori automatici di bibite, caffè e snack, che dà su una delle terrazze più belle di Parigi.

Fa uno strano e piacevole effetto sentire il sole in faccia, lì con la città ai miei piedi, la Torre Eiffel disegnata in lontananza; finalmente mi sembra di riuscire a respirare per la prima volta dopo giorni, ma dura un attimo. Marc mi sta indicando dove stanno lavorando i superstiti di «Charlie». «Sai, abbiamo messo a disposizione le stanze in questo ultimo piano per loro, perché è più riservato, c’è più luce e soprattutto possono venire qui in terrazza anche solo per fumare una sigaretta, dato che da noi è vietato all’interno». Mentre stiamo parlando si apre la porta a vetri da cui si accede dalla foresteria alla terrazza. Esce fuori una ragazza, bruna, i capelli lunghi e ondulati, un paio di jeans, un maglione chiaro e una grande sciarpa di lana grigia che le copre il viso a metà; sembra che abbia messo addosso le prime cose trovate nell’armadio. Ha delle occhiaie pesanti, gli occhi lucidi, si accende una sigaretta e va verso la ringhiera, ma non si affaccia, anzi si gira e dà le spalle al paesaggio appoggiandosi alla balaustra come se la vista fosse troppa bellezza.

Si aggirano tra la terrazza e la foresteria come fantasmi i sopravvissuti di «Charlie», gli sguardi persi nel vuoto di chi ha pianto troppe lacrime. I movimenti sono lenti, i pochi che parlano tra loro lo fanno a bassa voce e solo per scambiarsi informazioni di servizio o richieste pratiche: «Hai un euro per il caffè?». «Mi fai accendere?». Per il resto regna un silenzio opprimente lacerato a tratti dallo stridio di una sedia sul pavimento o dai rumori meccanici del distributore automatico di bevande calde. C’è solo un uomo che si aggira più velocemente degli altri; è magro, di statura media, una giacca forse troppo grande di una taglia; entra ed esce continuamente dalla stanza in cui sta prendendo forma il numero speciale di «Charlie Hebdo» che uscirà in un milione di copie il prossimo 14 gennaio. Dietro le lenti tonde dei suoi occhiali si intravede la sofferenza, la fatica, ma anche qualcosa di diverso: la responsabilità. Lo riconosco perché l’ho visto questa mattina nel servizio di un telegiornale che riprendeva le immagini della redazione al lavoro girate il giorno prima dalla France Presse: è Gerard Biard, uno dei caporedattori storici della rivista, che da poco più di 24 ore è diventato suo malgrado il direttore responsabile pro tempore. Biard è il collante dei frammenti di «Charlie», la sua voce calda e rassicurante è l’unguento che prova a lenire delle ferite che resteranno irrimediabilmente aperte, le sue movenze e le sue attenzioni sono quelle di un padre verso dei figli smarriti e divorati dalla paura.

Tutti si rivolgono a lui, anche quei pochi giornalisti che come me sono riusciti a trovare una breccia per entrare oggi. «Buongiorno, Gerard, mi chiamo Giovanna Pancheri, lavoro per il principale canale all-news in Italia, volevo anzitutto farvi i complimenti per la scelta più che coraggiosa di uscire con questo numero speciale. Mi rendo conto della difficoltà del momento, ma mi piacerebbe molto poterti intervistare in diretta, sai, abbiamo seguito con grande attenzione anche in passato le vicende del vostro giornale e ho avuto la fortuna di intervistare Charb un paio di anni fa…». «Giovanna, hai detto? Allora parliamo in italiano, mi farà bene distrarmi un po’, sentiamo cosa vorresti chiedermi?». «Vorrei chiederti del nuovo numero del giornale; ma come mai anche lei parla italiano?». «Questa è una lunga storia, comunque va bene, basta che non mi domandi nulla dell’attentato… Io ero a Londra quel giorno… Non ero con loro… Non mi sembra giusto parlare di quanto avvenuto e neanche di quello che ho provato…». Si alza gli occhiali sul naso con un dito e abbassa lo sguardo quando mi dice queste parole, che capisco e condivido profondamente. «Non preoccuparti, Gerard, proveremo a parlare anzitutto del futuro».

Tratto da G. Pancheri, Il buio su Parigi, Rubbettino, pp. 156, euro 15

Il libro sarà presentato martedì 18 luglio alle ore 18.30 presso il Centro Studi Americani, in via Michelangelo Caetani 32, a Roma. Interverranno Hassan Abouyoub, Marco Minniti, Romano Prodi. Modererà Sarah Varetto

 

Giovanna Pancheri è nata a Roma nel 1980. Giornalista e inviata di Sky TG24 dal 2005, è stata Corrispondente dal 2009 al 2016 per l'Europa per la stessa testata con base a Bruxelles. In questi anni, oltre a seguire la crisi economica e dei migranti dal cuore delle istituzioni, e come inviata nei principali paesi in difficoltà, ha coperto anche i più importanti fatti politici e di cronaca, dalla Brexit alle elezioni in Francia, in Germania e nel Regno Unito, passando per la gestione diplomatica delle crisi in Georgia, in Libia e in Ucraina fino alla copertura degli attacchi terroristici in Francia e in Belgio, che le è valsa premi e riconoscimenti della critica.

Prima di Sky, ha lavorato in Rai e nei settori stampa e comunicazione della World Trade Center Association a New York, del World Heritage Center dell'Unesco a Parigi e come Policy Officer all'European Youth Forum a Bruxelles. Dal settembre 2016 è corrispondente per il Nord America. Vive a New York.
 

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