Le gamers invisibili: il paradosso delle donne nell'industria dei videogiochi

In Italia, una persona su tre tra i 6 e i 64 anni gioca ai videogiochi. Secondo i dati raccolti da IIDEA, l’associazione di categoria dell'industria dei videogiochi italiana, parliamo di circa 14 milioni di videogiocatori, con un aumento dell’8% rispetto al 2023. E se una volta si pensava che il gaming fosse un universo quasi esclusivamente maschile, i numeri raccontano un’altra storia: le videogiocatrici rappresentano infatti il 41% dei gamer in Italia, mentre le persone non binarie sono lo 0,7%. Ma se i dati sul consumo cambiano, quelli sull’industria sembrano fermi. Nel settore videoludico, le professioniste rappresentano il 24% del totale, un dato in linea con la media europea, ma ben distante da Paesi come la Slovenia o la Bielorussia, dove la quota femminile arriva al 37%. Con Mariarosaria Nardone, ricercatrice in Didattica e Pedagogia Speciale all’Università di Bologna e membro del Centro Studi sul Genere e l’Educazione, proviamo a capire perché, in un ambiente in continua espansione, la partecipazione femminile resta ancora indietro. Un lavoro invisibilizzato e dimenticato “Per comprendere davvero la partecipazione delle donne nell’industria videoludica, sia come professioniste che come gamer, bisogna partire dalla storia della tecnologia”, spiega Nardone. Durante il primo dopoguerra, infatti, erano le donne a occuparsi sia dell’inserimento dei dati che della programmazione nei primi calcolatori. “Questi strumenti non venivano considerati un settore strategico: quello importante era costruire armi, fare la guerra. Le tecnologie, in quel momento, erano ‘invisibili’ e quindi lasciate alle donne”. A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, con la crescita dell’importanza strategica delle tecnologie, l’accesso all’istruzione tecnica è rimasto in gran parte un privilegio maschile. “E senza accesso alla formazione, diventa difficile costruire le competenze necessarie. Così si è generata una distanza strutturale. Dagli anni Ottanta, poi, le tecnologie sono diventate pienamente maschili nell’immaginario collettivo”, spiega la ricercatrice. E precisa: “Le tecnologie, di per sé, non hanno un genere, ma lo assumono nella loro rappresentazione sociale, economica e politica e ancora oggi sono una costruzione culturale e materiale di un potere maschile”. Dal punto di vista del pubblico, Nardone segnala che fin dalle sue origini l’industria videoludica ha progettato i propri prodotti per venderli a un profilo di gamer ben preciso. “Chi aveva il potere economico per acquistare i giochi e le console negli anni Ottanta? Il target costruito era chiaro: adolescente o bambino, bianco e maschio. Per costruire un’audience di massa bisognava parlare a loro, anche perché servivano dispositivi costosi, non bastava la televisione: penso al Commodore o al primo Game Boy”, spiega la ricercatrice. “I contenuti stessi dei videogiochi mainstream hanno rinforzato questo immaginario: un protagonista virile, eterosessuale, spesso circondato da donne da salvare o da conquistare. Non stupisce che una parte significativa del pubblico femminile si sia allontanata: non ci si riconosceva, e l’offerta era anche piuttosto monotona”, precisa Nardone, ricordando che nonostante questa visione stereotipata delle protagoniste con il tempo si sono formate comunità videoludiche femminili sempre più grandi e partecipate, al punto che oggi 4 gamer su 10 in Italia sono donne. Dal Gamergate a oggi Negli ultimi dieci anni, l’industria dei videogiochi ha attraversato profondi cambiamenti, ma non sempre nella direzione dell’inclusività. Un punto di svolta è stato il Gamergate, una campagna di minacce, molestie e attacchi informatici esplosa nel 2014 nei confronti di alcune donne che lavoravano nel settore. “È stato un evento traumatico per molte professioniste”, racconta Nardone, “e ha mostrato con estrema violenza quanto sia ancora difficile per le donne avere spazio in questo mondo”. Da allora, qualcosa si è mosso: grandi aziende hanno cominciato a investire in iniziative per la diversità e l’inclusione, ma gli effetti sono ambivalenti. Da un lato, infatti, è cresciuta la consapevolezza, ma dall’altro le tattiche di violenza digitale del Gamergate si sono normalizzate e replicate. E nonostante un aumento nella presenza femminile nell’industria, la crescita negli ultimi anni ha subito una battuta d’arresto: secondo una serie di report dell’Independent Game Developers Survey , nel 2005 le donne nell’ambito videoludico rappresentavano il 11% della forza lavoro: nel 2015 la percentuale è salita al 22%, mentre nel 2019 si è attestata al 24%. Non solo: in Italia come in altri Paesi, mancano dati granulari sui ruoli effettivamente ricoperti dalle donne all’interno delle aziende videoludiche. L’ultimo report di IIDEA, ad esempio, segnala che la presenza femminile si concentra in tre settori , senza però scendere nello specifico. A monte, resta il grande problema dell’assenza di donne nel settore STEM. Una ricerca di Microsoft ha evidenziato come l’interesse femminile per scienza e tecnologia tenda a calare già tra gli 11 e i 16 anni, con scarse possibilità di recupero in seguito. “È una finestra strettissima”, commenta Nardone, “e se non viene colta da insegnanti, genitori e media, si perdono intere generazioni di potenziali professioniste del settore”. Anche per questo, il ruolo dei modelli di riferimento è decisivo: le ragazze che vedono altre donne impegnate con successo in ambiti tecnologici hanno molte più probabilità di interessarsi alle materie STEM. Ma la rappresentazione non può restare uno sforzo isolato: servono politiche strutturali, dati precisi e un cambiamento culturale profondo per superare una lunga storia di esclusione.

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