A cosa serve davvero il tasto di Meta AI su WhatsApp

Perché il tasto blu e lilla ad anello di Meta AI non si può togliere da WhatsApp – e non c’è modo di fare il cosiddetto “opt-out” su Instagram e Messenger, con buona pace dei burocrati di Bruxelles? Perché Meta deve assolutamente posizionarsi. L’enorme lavoro sui large language model della famiglia Llama – a proposito, il colosso ha appena lanciato due nuove versioni, Llama 4 Scout e Llama 4 Maverick, e un’altra, l’inquietante Behemot, è in arrivo: come la leggendaria creatura biblica promette di ergersi divinamente al di sopra di tutte le creature artificiali – dev’essere sfruttato per incunearsi nelle abitudini d’uso degli utenti. Senza andare troppo per il sottile: sono 65 i miliardi di dollari che il behemot dell’hi-tech ha messo sul piatto della ricerca e dello sviluppo dell’AI solo per l’anno in corso. L’equivalente di oltre due leggi di bilancio italiane stanziate da una sola azienda privata per un solo ambito di business. E deve posizionarsi partendo dalla clamorosa posizione di supremazia che, pur con tutti i miserevoli pasticci di Mark Zuckerberg e i suoi velocissimi e interessatissimi cambi di direzione , continua a sfoggiare qualcosa come oltre due miliardi di utenti solo per la celebre chat. Proprio lì, infatti, i top manager sembrano aver imboccato la strada più insolente: piazzare un tasto sempre visibile e sempre in primo piano in basso a destra nella schermata delle conversazioni, a portata di pollicione, proprio sopra le impostazioni, a impallare una delle chat eventualmente attive. È una trappola, non è un’AI. E sì, come ci siamo accorti in questi giorni quella roba non si può disattivare. Se non vuoi chattare con Meta AI – per ora sforna solo testi, più avanti anche partorirà anche immagini e altri contenuti e si può menzionare in una chat di gruppo col comando @MetAI – sei comunque condannato a prenderne atto e ad assumere consapevolezza che non esistono solo i chatbot di OpenAI , di Google , di xAI , di Anthropic e di Microsoft – stante che per la maggioranza esiste sostanzialmente solo il primo. Ma che anche Meta AI è della partita e la sua soluzione l’ha iniettata direttamente nel codice delle piattaforme di casa popolate letteralmente da mezzo mondo, senza possibilità di fuga. Se, infatti, su Instagram o Messenger ci si può parlare dalla barra di ricerca dei DM, su WhatsApp la presenza di Meta AI è molesta e sempre in evidenza. E se la privacy – fino al o alla prossima whistleblower, s’intende – sembra al sicuro, visto che Meta AI non può accedere, per gli utenti europei, al contenuto delle conversazioni ma solo a quelle che le vengono sottoposte menzionandola, la questione è meramente di psicologia del design. Più che “nudging”, una spintarella gentile verso legittimi interessi, quel bottone ha il ruolo di una specie di buttadentro. Anche se non vuoi, anche se non lo sai, con la storica arroganza di casa Facebook devi necessariamente, prima o poi, fosse pure per sbaglio, finire a chiacchierare con l’IA di Zuck. Sicuro vi starete simpatici. In questo senso, non è nulla di diverso da quello che da sempre e a livelli ben meno raffinati e potenti accade con il design delle applicazioni, soprattutto quelle commerciali: una spietata strategia che si spinge ben oltre un approccio efficace trasformandosi in una vera e propria architettura della manipolazione. Interfacce studiate al millimetro ci spingono scientificamente verso azioni che non abbiamo scelto davvero come l’acquisto impulsivo, l’uso prolungato o la condivisione non necessaria di dati – pensate, un esempio su tutti, al conto alla rovescia per il carrello in molti siti di e-commerce, specie quelli di offerte. Ci vuole veramente una buona dose di autocontrollo per resistere a questa grammatica psicologica. Colori, notifiche, scroll infiniti e pulsanti strategicamente posizionati, spesso in modo controintuitivo rispetto a come “scorrono” le cose in un ambiente digitale, sfruttano infatti le nostre vulnerabilità cognitive per guidare il comportamento in modo subdolo, sfociando in pratiche spesso definibili con l’etichetta di dark pattern. In questo modo, l’utente non è più solo guidato: è spinto, talvolta forzato, in direzioni funzionali agli obiettivi dell’azienda o di chi ha sviluppato l’app, spesso a discapito del suo stesso benessere. Con Meta AI più che di dark pattern si tratta di uno schema così alla luce del sole da essere accecante, un bright pattern spudorato, privo di qualsiasi via d’uscita e sul quale molto probabilmente Menlo Park non tornerà indietro: “Meta AI è integrata e non può essere disattivata, ma è stata studiata per essere attivata solo su esplicita richiesta chiamandola o cliccando volutamente sul simbolo circolare” ha spiegato una nota in risposta al crescente disappunto di queste ore. Come dire: Meta AI è parte di quell’esperienza di chat: non è una funzionalità aggiuntiva né un tool che la arricchisce ma deve diventare la porta d’ingresso a un compagno virtuale che nessuno ha chiesto e che nessuno ha invitato sul nostro smartphone. Fatevene una ragione.

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