Un gangster messo ai margini dalla sua famiglia mafiosa riparte da zero alla conquista di una città quasi dimenticata. Storia di crimine, voglia di farcela e tanta ironia nella nuova serie di Paramount +
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Ha recitato in quasi cento film, ma finora Sylvester Stallone non era mai stato la star di una serie TV. Ha cominciato adesso con 'Tulsa King', dieci episodi che saranno visibili in esclusiva entro fine anno su Paramount+, il nuovo servizio di streaming che a partire dal 23 settembre sarà disponibile per i clienti di Sky Cinema senza costi aggiuntivi. Il creatore e candidato all'Oscar Taylor Sheridan è il produttore esecutivo della serie insieme al candidato all'Oscar e vincitore dell'Emmy Award® Terence Winter ("I Soprano", "The Wolf of Wall Street"), che è anche showrunner e scrittore.
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Il re di Tulsa è un gangster che spera in una ricompensa da parte della mafia e viene invece scaricato dal boss e spedito a Tulsa, una città secondaria degli Stati Uniti. Dwight Manfredi, questo il nome del malavitoso in disgrazia, non si butterà giù e ripartirà da zero per mettere insieme una banda e stabilire il controllo degli affari loschi della città. È un personaggio in pieno stile Stallone, uno di quegli uomini mandati al tappeto dalle circostanze avverse, ma che trovano la forza di rialzarsi e di picchiare duro in cerca della vittoria. L’interprete di Rocky e Rambo è stato a Roma per il lancio di ‘Tulsa King’ e con la cordialità che avevamo già conosciuto ha concesso a Sky un’intervista.
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Perché ha deciso di saltare nel mondo delle serie TV?
“Ho voluto questa prima volta perché penso che non sia una serie come le altre. È davvero speciale, unica e non ne ho mai visto una così. Ecco perché ho voluto esserci.”
Cosa pensa del momento d’oro dello streaming?
È appena all’inizio e deve ancora arrivare al suo massimo. Diventerà ancora più sofisticato e competitivo.”
Nelle prime immagini di ‘Tulsa King’ abbiamo visto che c’è anche un aspetto divertente del suo personaggio. Sarà così per tutta la serie?
Sì, Ho voluto fare questa parte perché c’è anche umorismo. Non è seria da morire, guarda alla vita con un certo senso di ironia. Credo che con le sue battute dia alla gente un po’ di respiro.”
Dwight Manfredi non sarà il solito stereotipo cinematografico dell’Italo-americano mafioso?
“No, per niente. Non lo vediamo mai con la mafia. Esce di prigione, ha avuto la sua lezione, va dalla famiglia mafiosa e lo tradiscono mandandolo a Tulsa, che è come una condanna a morte. Tutto lì. Non c’è più la mafia. Il mio personaggio ora cerca sostegno: incontra cowboy, indiani, giovani e comincia a costruire una famiglia attorno a sé. I mafiosi sono gelosi: pensavano che sarebbe morto e invece comincia a fare soldi, tornano da lui ma lui risponde: no, amici cari, questa è la mia famiglia. Tornate a casa.”
Non ho familiarità con l’Oklahoma. Mi spiega cosa significa per un americano trasferirsi da New York a Tulsa?
“Vuole davvero che glielo dica? È come andare sulla luna. La gente dell’Oklahoma è fantastica, ma dal punto di vista dell’ambiente è un posto incredibile: freddo polare, caldo infernale, tornado. Una volta ho misurato la temperatura con il termometro e ho visto che c’erano 57 gradi. È gente tosta. Quei posti li chiamavano Badlands, le terre cattive. Era il territorio più spaventoso d’America. C’erano 300 bande criminali per ogni sceriffo. Poi divenne uno Stato.”
Considerando il suo nome e la sua storia, come si sente a interpretare personaggi italo-americani?
“Mi sento come se fossero su misura per me. Da Rocky Balboa in poi sono sempre stato identificato così. Se provassi un ruolo da cowboy non funzionerebbe. I personaggi italiani sono come una seconda pelle per me, naturalmente.”