Post Malone infiamma Milano, il suo concerto chiude gli I-Days

Musica
Giuditta Avellina

Giuditta Avellina

Un’unica data italiana, un live che è stato più di un concerto: Post Malone ha trasformato l’Ippodromo SNAI San Siro in un roadhouse on the road, con neon da Route 66, brani country potenti e un pubblico in delirio. Una serata che racconta l’evoluzione di un artista che oggi sembra aver trovato la sua vera casa nella musica.

È stato come l’inizio di un film all’Ippodromo Snai San Siro di Milano: le luci che si abbassano, la folla che esplode in un boato, e lui, Post Malone, che appare con passo lento, quasi esitante, sul palco. “Ladies and gentlemen…”, la sua voce roca, segnata dal fumo e dalla vita vissuta, ha dato il via a un racconto che non era solo musica, ma atmosfera. Post Malone non ha bisogno di pose teatrali: basta il suo modo di trascinarsi, di piegarsi sulle ginocchia, di cantare come se ogni parola fosse un pezzo di storia personale, anzi lo è. Milano si è ritrovata catapultata in Texas, in quell’America polverosa che lui incarna con naturalezza e timida sfrontatezza, fumando e bevendo e cantando.

La scenografia: un roadhouse nel cuore di Milano

Il palco è un richiamo costante alla strada: insegne al neon, scritte luminose che sembravano rubate a un diner di provincia, proiezioni desertiche che aprono all’immaginazione il mito della Route 66. Nessun artificio pirotecnico, nessuna ricerca di spettacolarità fine a sé stessa: tutto parla di autenticità. C’è la sensazione che Post abbia voluto portare con sé un pezzo della sua terra, come se abbia piantato una roadhouse texana dentro l’Ippodromo. E la gente, la sua, ci è entrata volentieri, accettando di vivere un viaggio più che un semplice show. Per espiare colpe, gettare la nostalgia sul terreno scosceso del live, sperare in uno sliding doors, pensare che una canzone possa arrivare con l’autostop di una storia condivisa. Post Malone ieri notte è stato tutto ciò che, forse, non abbiamo lo slancio di essere sempre: in contatto viscerale e senza freni con il proprio sentire. Coraggioso nel mostrare le proprie umane fragilità, aperto, emozionato ed emozionante in questo suo taglio, doloroso ma colmo di grazia, con il passato. E in questo prologo di benedetto, spaventoso e dannato cambiamento, come ogni ex rockstar che si rispetti, si è inchinato, con gratitudine, a ciò che stato. Si è commosso, si è inginocchiato, è caduto. Poi, risoluto, ha sputato fuori l'ennesimo sip di birra e con esso la dark saudade si è rifugiata in un angolo di stomaco. E quindi  via, verso nuove routes. Consapevole, a ogni verso, di quanto rischio e dolore ma anche sorpresa e leggerezza porti scegliere di essere un artista nuovo, più risolto, più compreso, meno rockstar e più cowboy.

L’attesa, gli opening act e l’arrivo di Jelly Roll

Ad aprire la serata, Jelly Roll, uno dei nomi più interessanti della nuova scena americana, che con il suo misto di gospel, country e soul ha preparato il terreno con intensità. È stata una scelta coerente, perché ha creato da subito il clima di radici e verità su cui poi Post Malone avrebbe costruito il resto. Quando, a metà concerto, è tornato sul palco per duettare su Losers, il pubblico ha percepito quella collaborazione come un gesto di fratellanza: due artisti diversi ma affini, uniti dal raccontare la fragilità in musica, ma con quel “presi bene” che forse, nella leggerezza di un pesante cambiamento, ha reso questo live imperfetto così tanto godibile.    

La scaletta come narrazione rollecoaster

La setlist di Milano è stata pensata come una lunga cavalcata narrativa, sembra di stare sulle montagne, sì, ma del Guadalupe. Si parte con Texas Tea, apertura che non lascia dubbi al fatto che si parta da lì, dalle radici orgogliosamente sceneggiate (ed esibite con tanto di bandiera texana): Post vuole portarci sulla sua nuova strada, e quella strada ha il sapore del country. Piaccia o meno, that's it. Poi arriva Wow. e subito dopo Better Now, i brani che hanno fatto di lui una star globale. Il pubblico esplode, canta ogni parola, ma già qui si percepisce che quelle hit appartengono più al passato che al presente, che è tempo di lasciare le lacrime e spiegare le vele, con i calici di birra in alto a celebrazione di un nuovo amore, il country. Imprevisto non previsto, imprevedibile, imperfetto. Eppure inevitabile. Con Go Flex e I Fall Apart il clima cambia: il live diventa intimo, fragile, Post Malone si piega in due, canta inginocchiato, quasi a implorare comprensione. È il primo momento in cui la sua voce graffiata e irregolare trova una sincerità assoluta di essere malinconico, di concretizzare quel look back in anger dirigendolo verso il lutto e il sabotaggio che precedono la rinascita e quel giorno in più, inatteso e meritato, di nuova vita.

Nella parte centrale si compie la vera trasformazione: Pour Me a Drink, Dead at the Honky Tonk, I Had Some Help. Qui l’artista esplode in tutta la sua verità country. Con la chitarra in mano, sembra trovarsi finalmente a casa. Questi brani non sono soltanto canzoni nuove: sono la dimostrazione che Post Malone ha trovato un’identità artistica nuova, più autentica. Il pubblico lo percepisce, lo segue, e l’energia cresce.

Arrivano poi i classici: Circles, White Iverson, Psycho. Sono momenti di liberazione collettiva, inni cantati all’unisono. Ma, per quanto forti, non hanno la stessa intensità dei pezzi country. È un paradosso evidente: le canzoni che lo hanno reso una popstar mondiale sembrano quasi più leggere, meno radicate, rispetto alla forza emotiva del suo nuovo repertorio. Il passato, immanente e glorioso, si è schiantato verso l'inevitabile consapevolezza che oggi è un giorno nuovo e, forse, più maturo.

Il finale è un crescendo: rockstar, Sunflower – presentata con un “this motherf***er” che strappa applausi e risate – e infine Congratulations. È un epilogo che non è soltanto un saluto: è una dichiarazione d’amore al pubblico, un ringraziamento sincero e un inchino al Post che è stato e un benvenuto a quello che sarà.

Il pubblico: parte integrante dello spettacolo

Gli spettatori non sono semplici spettatori. Cappelli da cowboy, striscioni, cori che accompagnavano ogni strofa, tatuaggi in ogni dove: il pubblico milanese si è trasformato in coro, in scenografia, in comunità. Quando Post scende verso le transenne, offrendo una birra, o ringrazia con quell’aria stropicciata e sincera, si ha la sensazione che l’arena sia un unico organismo, respirando al ritmo della sua voce. C’è un entusiasmo spontaneo, fatto di grida, di abbracci, di lacrime durante Goodbyes. Che svaniscano commiati e addii, sembra piuttosto che qui stasera sia una festa moltiplicata di benvenuti al mondo.

La fisicità e l’emozione di Post

Sul palco, Post Malone non si limita a cantare. Si piega, si inginocchia, si lascia cadere a terra. La sua fisicità racconta più delle parole: ogni gesto sembra dire “questa canzone mi attraversa, non la sto solo suonando”. È un performer imperfetto, a volte la voce si incrina, ma in quell’imperfezione c’è tutta la sua verità. Alla fine del concerto resta qualche secondo in silenzio, quasi incapace di lasciare andare quel momento. Ringrazia, sorride, e nei suoi occhi si legge commozione. Poi, quando le parole non arrivano e anche gli ultimi versi sono scemati, è il momento più intenso. Gli abbracci. Ne da mille al suo pubblico, caldi, sinceri, dannatamente real. Come è lui, ironico e antistar, sgraziato e pieno di grazia, irriverente e improbabile. 

Un ex rockstar che non ha paura di fare il cowboy

Il concerto di Milano ha dimostrato che Post Malone non è più soltanto la popstar da classifica che tutti conoscono. È un artista in transizione, un cowboy contemporaneo che usa la musica per raccontare se stesso in questo suo nuovo tempo. Se il rap-pop lo ha reso celebre, il country lo sta rendendo vero. E ieri sera all’Ippodromo SNAI San Siro questa verità è esplosa in tutta la sua forza: nel suono, nelle immagini, nell’emozione di un pubblico che ha partecipato a un viaggio più che a un concerto, che ha scelto di fidarsi di lui e di questo nuovo inizio. Milano lo ha accolto come una (rock) star, lui si è congedato come un uomo che aveva davvero qualcosa da dire. Ed è questo che resterà: non solo i cori su Sunflower, non solo i neon texani, non solo un travolgente country show. Ma la sensazione di aver assistito a un artista che si è mostrato nudo, con tutta la sua imperfezione e il suo talento. "Tante volte la vita mi ha buttato giù. Ma voi mi avete inaspettatamente dato nuovo coraggio per avere consapevolezza e realizzare i miei fo***ti sogni. Realizzateli anche voi, non c'è nessuno che può impedirvelo, ladies and gentlemen. Grazie" dice, seduto in un angolo e commosso, prima di alzarsi e conquistare ancora il suo palco. E poi scendere giù, liberato, e stringere tutti, a culmine di un'ora e mezza intensissima. Un concerto che non è stato un’esperienza fine a sè stessa. Ma un viaggio corale che, in abbracci e parole e versi e rime, ha voltato pagina e raccontato il coraggioso capitolo uno di una insperata, appassionata, collettiva e bellissima metamorfosi. E chi se ne importa se non è tutto impeccabile, se Hollywood sta sanguinando, se White Iverson si disgrega, se ra-ta-ta è una eco scolorita d'inizio estate. E quanto è bello, in realtà, questo cielo perturbabile di fine agosto che protegge ogni nuovo abbraccio e ogni cerchio che si chiude dentro chi - ricevendolo inaspettatamente, fisicamente o da lontano - non potrà che portarlo con sè anche post live. Come monito, àncora, segnale, ripartenza dopo un rovinoso e lacrimevole Ain't comin back. E verso un autunno rinascente e colmo di sunflowers fuori tempo, non più annaffiati dal pianto. Un autunno un po' da Losers, forse. Ma che, sì, suona tanto di sperata, consapevole, ma soprattutto semplice e, finalmente, non più maledetta primavera.

La SET LIST del concerto del 27 agosto 2025 

Intro/Texas

Wow

Better Now

Wrong Ones

Go Flex

I Fall Apart

Losers

Goodbyes

What Don't Belong to Me

I Ain't Comin' Back

Circles

White Iverson

Psycho

Pour Me a Drink

Dead at the Hony Tonk

Rockstar

I Had Some Help

Sunflower

Congratulations

Spettacolo: Per te