Morrissey, l’ultimo outsider: a Roma l’icona che canta la malinconia
Musica
Il frontman degli Smiths arriva in Italia per un concerto attesissimo. Una leggenda divisiva, tra lirismo struggente e provocazioni, che continua a influenzare generazioni – anche quando non piace a tutti
A Roma arriva Morrissey. E ogni suo concerto è molto più di un live: è una seduta collettiva di memoria e contraddizione. Per alcuni, è un profeta del pop più intellettuale e disperato, per altri, un ex eroe ormai prigioniero di sé stesso. Ma nessuno può dire che non abbia lasciato un segno. Il suo arrivo nella Capitale riaccende un culto che attraversa quarant’anni di musica, estetica e parole taglienti come rasoi. Non è solo la voce degli Smiths, è anche una figura tragicamente moderna: solitaria, controversa, irriducibile. Morrissey non cerca consensi, e forse è proprio per questo che è diventato un’icona.
Morrissey: l’uomo che sapeva cantare il dolore come nessuno
Nato a Manchester nel 1959, Steven Patrick Morrissey è stato prima di tutto il frontman e paroliere degli Smiths, band fondamentale del post-punk britannico degli anni ’80. In soli cinque anni (1982-1987), il gruppo ha inciso un canone emotivo nuovo, dove la malinconia, l’umorismo nero e la poesia working-class si fusero con le chitarre di Johnny Marr. Con testi che parlavano di emarginazione, desiderio non corrisposto, depressione e alienazione quotidiana, Morrissey ha incarnato una voce per chi si sentiva fuori posto – in amore, nella società, persino nel proprio corpo. Un outsider che ha fatto dell’essere “altro” un’arte. Canzoni come There Is a Light That Never Goes Out, How Soon Is Now?, This Charming Man, sono diventate inni per generazioni che cercavano una lingua nuova per raccontare il disagio.
La carriera solista e l’equivoco permanente
Dopo lo scioglimento burrascoso degli Smiths, Morrissey ha intrapreso una carriera solista discontinua ma spesso brillante, iniziata con l’album Viva Hate (1988). Tra alti e bassi discografici, ha saputo reinventarsi più volte: dal pop orchestrale al glam rock, dal britpop all’indie più ruvido. Brani come Everyday Is Like Sunday, Suedehead, Irish Blood, English Heart, First of the Gang to Die hanno consolidato la sua figura di narratore tragico, ironico e sempre più scorbutico. Ma è anche in questa fase che Morrissey è diventato un personaggio divisivo: dichiarazioni politiche spesso ambigue, accuse di razzismo, sostegno a partiti di destra britannici, rifiuto dell’industria musicale, boicottaggi improvvisi. Tutto questo lo ha reso una figura inafferrabile, difficile da amare incondizionatamente. Eppure, proprio questa ambivalenza è parte integrante della sua mitologia.
Un lascito musicale e culturale enorme
Nel 2025, Morrissey è ancora un caso culturale, non solo musicale. Artisti come Lana Del Rey, Brandon Flowers, Billie Eilish e persino Kendrick Lamar hanno citato la sua influenza. I suoi testi – più che le sue melodie – hanno educato al pensiero critico, alla vulnerabilità, al rifiuto del conformismo. Le sue frasi diventano tatuaggi, meme, citazioni da diario adolescenziale e da tesi universitaria. È uno di quei pochi artisti per cui si può parlare di culto, non solo di fandom. Il suo modo di cantare (spesso in falsetto, con inflessioni teatrali), il suo modo di vestirsi (camicie aperte, pose da dandy impolverato), il suo modo di parlare (sentenzioso, provocatorio, lirico) hanno influenzato decine di band e scrittori.
Non piace a tutti, e va bene così
Andare a un concerto di Morrissey oggi significa accettare un’esperienza contraddittoria. Ci si può trovare a piangere durante Please, Please, Please Let Me Get What I Want, ma anche a storcere il naso davanti a una sua invettiva improvvisa contro i media o l’industria alimentare. È difficile scindere l’uomo dall’artista, ma forse è proprio in questa tensione che si nasconde il cuore della sua potenza. Morrissey è un singolare culturale. Non esiste un altro come lui, nel bene e nel male. Non cerca di piacere a tutti: vuole solo essere vero, anche quando la verità fa male, è scomoda o sbagliata. E questo – nel panorama musicale odierno, iper filtrato e accomodante – è già di per sé un atto rivoluzionario. Nel 1986 cantava There is a light that never goes out. Quella luce, a modo suo, è ancora accesa. Forse più fioca, certo più solitaria. Ma resiste. E per chi si è sentito anche solo una volta al mondo come Morrissey canta – inadeguato, non allineato, innamorato senza risposta – il suo concerto a Roma sarà qualcosa di più di una scaletta: sarà una resa dei conti emotiva, una confessione pubblica, una veglia laica per tutto ciò che non sappiamo dire altrimenti.