Mimmo Locasciulli, l'album Dove lo Sguardo si perde: "Il mondo è un insieme di colori"
Musica Credit Julia Foster
Ci sarà un concerto celebrativo a Roma il 18 dicembre. Il sogno di questo cantautore oggi sarebbe scrivere qualcosa sul futuro. INTERVISTA
Appuntamento speciale il 18 dicembre a Roma nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone con il cantautore Mimmo Locasciulli che celebra 50 anni di attività artistica con una data speciale che chiude il tour Dove lo Sguardo si Perde, titolo dell'album che racconta la sua storia artistica. Questo gran finale vedrà sul palco ospiti cantautori e musicisti che hanno attraversato la vita e la carriera di Mimmo Locasciulli.
L’amore dov'è? è una domanda che attraversa un po' tutte le epoche. Quando nella tua vita hai sentito di aver trovato davvero l'amore e quando invece ti è sembrato in qualche modo invisibile?
Io mi sento molto fortunato perché sono nato in un paese, Penne, terra d'Abruzzo tra la Maiella e il Gran Sasso: oggi si dice che l'Abruzzo è la regione verde d'Europa ma oltre a essere una regione verde è una regione di gente veramente incredibile dal punto di vista dell'umanità, della disponibilità, del rispetto, non necessariamente dell'erudizione e forse anche dell'educazione per come possiamo intenderla oggi.
E in quel clima che, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, nasce l'amore.
Quel mondo mi ha dato permesso di avere amore fin da bambino per le persone che mi circondavano, amore per la pioggia, per il vento, per i tramonti, per le parole dette dai grandi o semplicemente con gli amici; poi la mia crescita da bambino ad adolescente è stata incredibile perché avevo due nonni magnifici, un padre veterinario, una mamma professoressa e con tutto quello che poteva essere il limite dei genitori degli anni Cinquanta che dovevano ricostruire una dignità perduta in qualche modo con la guerra, c'era una severità maggiore, oggi viviamo nella permissività.
Un ricordo speciale?
Uno dei miei nonni aveva delle terre in campagna e ho passato la mia adolescenza tra le mucche, il raccolto, l'ulivo, l'olio. Insomma, voglio dire, tutte cose bellissime. E contemporaneamente a 5 anni ho cominciato a studiare pianoforte e mi sono innamorato della musica e ho capito che per tutta la vita non avrei potuto fare a meno di suonare in qualche modo. Poi con mio padre veterinario ho scoperto il microscopio, col microscopio vedevo un'infinità di mondi, un granello di sabbia diventava una montagna, che ne so, tutte queste cose incredibili. Avevo degli zii medici e lì mi sono innamorato dell'idea di fare il medico. Sono tutti elementi che diventano il primo approccio a un sentimento dell'amore.
C'è anche stato l'incontro con l'amore della vita.
Il mio amore adolescenziale dura ancora perché a 14 anni mi sono fidanzato con la persona che è ancora mia moglie e lì c'è il secondo aspetto dell'amore. Poi andando avanti con gli anni e analizzando un po' quello che ci circonda, la società che cambia, le guerre, la povertà e il problema delle immigrazioni ho cominciato a pormi la domanda: ma c'è amore veramente? Quanto amore c'è nell'uomo e dentro di me? Ho fatto riflessioni molto turbanti dal punto di vista personale ma alla fine sì, l'amore dov'è è una domanda, ma in qualche modo è anche una sentenza: basta che leggiamo i giornali, sentiamo la radio, guardiamo le strade e ci rendiamo conto che parliamo più in astratto dell'amore che non dell'amore reale.
Nel riorchestrare i brani di Dove lo sguardo si perde avrai avuto la sensazione di guardarli con degli occhi diversi: cosa ha prevalso tra melanconia, gratitudine o senso di scoperta?
Immagino che ogni artista vero dal più sfrenato punk al più sfrenato rockettaro in qualche modo sogni di avere un concerto o un disco con un'orchestra vera, perché l'orchestra ti fa volare verso mondi che non sapevi neanche che esistessero. Le armonie che disegnano le orchestre sono diverse da ogni altra forma di armonia ritmica che tu hai con un una band o con altre formazioni. Ma c'è altro perché è la declinazione di una canzone, e non parlo di pentagramma quindi di melodia o armonia, ma della declinazione del sentimento che ha ispirato quella canzone che cambia! Declini il sentimento della canzone in modo diverso ogni volta che tu la riarrangi. Io l'ho fatto diverse volte, che è un po’ come quando ci vestiamo. Negli anni Settanta andavano i pantaloni a zampa di elefante oggi no, c'è un adattamento al tempo che cambia e il gusto, la sensibilità, le aspettative anche di una canzone possono variare cambiando l'arrangiamento. Però l'arrangiamento fatto con un'orchestra d'archi, e qui devo ringraziare mio figlio Matteo che ha scritto degli arrangiamenti bellissimi, ti porta in un mondo più celeste.
Rielaborare dei pezzi storici può essere inteso come una rilettura di vecchie lettere: hai mai temuto di toccare qualcosa che andava lasciato com'era?
In questo album ho inserito le canzoni più conosciute proprio perché il denominatore comune era l'amore nelle sue più svariate sfaccettature. Però no, l'ha fatto tanta gente, l'ha fatto Alessandro Manzoni, l'ha fatto Dante: con riletture non violente non perdi l'essenza. La canzone è come vista da un'angolazione diversa, con una prospettiva diversa, con un'ombra diversa, con una luce diversa però non la offendi e non la arricchisci, è uno sguardo differente, è una percezione diversa e il pubblico la percepisce non come una forzatura o come una maschera ma come un momento diverso del sentimento, del pensiero e del gusto.
Riprendo le tue parole “lo sguardo si perde dove lo porta la mente ma con il visto del cuore”: qual è stato uno degli ultimi luoghi fisici in cui sei stato dove il tuo cuore ha aperto lo sguardo?
Tanti ma non sono un turista sono un viaggiatore. Sono tornato recentemente dalla costa francese dell'oceano Atlantico dove ho avuto un impatto diverso anche con l'idea di mare. Ora sono a Silvi Marina, sulla costa adriatica, e sono seduto sotto l'ombrellone e sto guardando le persone che stanno in acqua e dove sono stato invece con mio figlio Matteo e tutta la sua famiglia, anche con i nipoti romani, lì c'è un oceano immenso e delle spiagge lunghe centinaia metri: lì non c'è il mare come l'intendiamo noi, con gli ombrelloni e le sdraio, c'è una natura selvaggia piena di dune ma dove hai un contatto non solo con l’oceano ma anche con il luogo. Io detesto i non luoghi, quando trovo il luogo me ne innamoro. Napoleone III, in questo posto sotto Bordeaux, ha fatto rimboscare con milioni di pini cento chilometri quadrati e dunque vedi una natura diversa, nasce così una alleanza con tutto ciò che rappresenta quel luogo innamorandoti e assorbendo ricordi che ti restano per sempre.
I teatri che toccherai, che stai toccando nel tour sono scrigni di arte e di memoria. Che ruolo ha dal tuo punto di vista lo spazio scenico nella narrazione musicale che offri al tuo pubblico?
È uno spazio relativo. È un po' la conseguenza di come nasco come cantante.
Raccontami.
Nasco in quel mitico locale che era il Folkstudio e quando lì c'era la star di quegli anni, Francesco Guccini, noi aspiranti cantautori eravamo in 120 ad ascoltarlo arrampicati in ogni dove, sulle scale, dappertutto ed era un luogo molto piccolo. Dopo un paio d'anni che facevo le tre canzoni della domenica pomeriggio con gli altri, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Stefano Rosso e altri, fui promosso allo spettacolo serale: attraversavo la sala buia, mi sedevo sul trespolo, non c'era neanche il microfono, cantavo con il pubblico che era a 80 centimetri dalla pedana. Forse è brutto dirlo, io ho fatto concerti per 15 mila persone ma in definitiva mi sono accorto che canto per me e cantare per me è rivivere ogni volta in maniera diversa le sensazioni che hanno portato alla nascita di una canzone, chiamiamola ispirazione vissuta in modo diverso che comunque viene recepita e percepita dal pubblico che si mette in sintonia. Io non chiedo di cantare, non alzo le mani per fare applaudire, non l'ho mai fatto e mai lo farò, però vedo le labbra che si muovono senza forse emettere dei suoni e lì capisco che siamo in sintonia, il pubblico é il luogo dove mi trovo.
Hai lavorato con tuo figlio Matteo nella produzione. Com'è stato condividere e unire il percorso artistico a quello personale, umano tra un padre e un figlio?
Ho due figli e, chi per un verso chi per un altro, mi martirizzano. Matteo devo dire che a 14 anni già suonava perfettamente il basso e il contrabbasso perché ha avuto Greg Cohen come maestro e quindi vabbè… Quando non avevo altri bassisti di ruolo lui suonava con me e a volte anche meglio dei bassisti di ruolo. Poi anni fa se ne è andato a Parigi e non è più tornato, ha messo su uno studio di registrazione immenso con otto musicisti tra cui due che lavoravano con me e che da cinque anni vivono a Parigi ricchi e felici, e scrive colonne sonore per film. Ora ha due serie Netflix. È chiaro che poi col passare degli anni da figlio che ti chiede “ho suonato bene?” o ti osserva e, diventato un adulto, ti dice “papà questa canzone la canti bene, questa canzone no”.
Come artista che ha attraversato decenni di musica cosa significa oggi il “rumore del mondo”?
È bello, è intrigante, è fastidioso, è clamoroso, è dolce, dipende da dove tu indirizzi la tua attenzione. E poi c'è il rimbalzo, che è ciò osservi o che senti dentro di te. A volte sento suoni di tristezza immensa, a volte piangerei, a volte sento una gioia sfrenata per le cose: il mondo è un insieme di colori che hanno tutte le sfumature che ti portano a una reazione o forse a tutte le forme di reazione. Se penso al dramma che stanno vivendo adesso i ragazzi, bambini, tutte le persone di Gaza, mi viene anche da piangere. Se penso alla crudeltà di certe guerre, se penso alle scompostezze e all'avidità di alcuni dittatori, e alludo alla guerra tra Russia e Ucraina, mi viene da pensare che il mondo sta andando verso la rovina, mi preoccupo per i miei figli, per i miei nipoti. Quando hai vissuto la tua vita alla fine non dico che provi indifferenza ma hai una corazza, una schermatura che in qualche modo protegge la tua reazione. Però, se ti metti nei panni di chi viene dopo, è chiaro che una inquietudine la provi.
Nel tuo percorso ci sono delle parole che ancora aspettano di diventare canzoni?
Tante. Io scrivo per crittogrammi, nel senso che ho il mio dizionario di codici e magari è chiaro che poi l'opera forse appartiene a chi ne fruisce, però, insomma, la paternità è quella e il significato dell'autore è indiscutibilmente il suo. Cercami sembra una canzone d'amore ma è una richiesta a una divinità di rivelarsi, se esiste o meno, perché sennò non mi avrà mai come fedele. Probabilmente non è possibile ipotizzare un futuro però mi piacerebbe molto poter dire qualcosa sul futuro.