Marco Castello apre Abbabula 2025, “Nei festival trovo un’energia speciale"

Musica
Federica De Lillis

Federica De Lillis

Il giovane cantautore siracusano racconta l’emozione di aprire l’evento che, dal 16 luglio al 12 agosto, porterà in Sardegna musica e parole d’autore. Sassari si prepara a entrare nell’atmosfera spensierata, divertente e luminosa di Castello con il live in piazza Monica Moretti, una tappa che avvicina il cantautore alla fine del suo ultimo tour dedicato all'album "Pezzi della sera", per proiettarsi poi verso un progetto in cui racconterà un nuovo lato di sé

Quella di Marco Castello è un’estate dall’atmosfera ricca di colori anni ’70, fiati caldi, chitarre leggere, groove vellutati e testi che mescolano ironia e spensieratezza. A lui è affidata l’apertura del Festival Abbabula, giunto quest’anno alla ventisettesima edizione. Organizzato dalla Cooperativa Le Ragazze Terribili, realtà culturale interamente al femminile, il festival torna dal 16 luglio al 12 agosto con un programma che intreccia generi, linguaggi e visioni, portando in scena oltre venti artisti italiani e internazionali tra Sassari, Sennori e Alghero. Tra questi Youssou N’Dour & Super Etoile de Dakar (20 luglio, Sassari), uno dei più grandi ambasciatori della musica africana nel mondo; Jota.pê (25 luglio, Sennori), tra le voci più originali della scena portoghese, afro-brasiliana; l’artista statunitense Fantastic Negrito (5 agosto, Sassari). Non mancheranno grandi protagonisti della canzone d’autore italiana, come Cristiano De Andrè (31 luglio, Alghero), Brunori Sas (3 agosto, Alghero), Lucio Corsi (18 luglio, Sassari), Joan Thiele (19 luglio, Sassari),  Davide Shorty & DisOrchestra (7 agosto, Sassari) e tanti altri. 

 

Castello, che figura tra le più interessanti del nuovo cantautorato, salirà sul palco di piazza Monica Moretti, a Sassari, il 16 luglio con il suo tour Pezzi della sera, ultimo capitolo dedicato all’album omonimo del 2023. A pochi giorni dal live, racconta la felicità di suonare per la prima volta in Sardegna, l’energia speciale che si sprigiona nei festival e la bellezza dello “scambio” tra artisti e pubblico. Una tappa, quella sarda, parte di un cammino verso musica nuova ma senza abbandonare l’autenticità e le note poetiche che possono nascere dall’incontro con altri artisti. 

 

Come ti senti a inaugurare il Festival Abbabula, un evento che ha così tanta cura del cantautorato? 

Sono molto contento di andare in Sardegna perché finora non ci ho mai suonato, poi è una regione stupenda. 

La gente che va a un festival emana un’energia più grande rispetto a quella di un concerto normale e, da artista, hai la possibilità di ampliare il tuo pubblico, riesci a prendere anche persone che sono lì per sentire qualcun altro. C’è uno scambio di scoperte e di gusti musicali. 

E poi la dimensione di un festival ti dà anche un po’ la sensazione di essere all’interno di un contesto più grande, una sorta di microsocietà, che dura alcuni giorni e che si basa anche sul condividere insieme degli spazi e questo è molto bello. 

So che non puoi fermarti più giorni perché sei nel pieno del tuo tour estivo, ma ci sono artisti della line up di Abbabula che ti sarebbe piaciuto ascoltare? 

Ci saranno molti artisti che suoneranno al festival che mi sarebbe piaciuto sentire, alcuni sono proprio degli amici come Joan Thiele. Fu lei a suggerire il mio nome a Mace prima ancora di conoscermi. Mi piacerebbe molto riascoltare un suo concerto. Ce ne sono tanti altri. Brunori, per esempio, io dopo aver ascoltato un suo pezzo ho deciso che volevo scrivere in italiano. In generale, i concerti in cui vengono suonati strumenti dal vivo li guarderei tutti. 

 

A inizio luglio è uscito Felini, il singolo in cui, insieme a Venerus, assumi il punto di vista di un gatto randagio che ha avuto poco ha ma ha sognato tanto. Mi racconti qualcosa sulla genesi di questo lavoro e cosa ti ha lasciato la collaborazione con Andrea?

Anche qui c’entra un po’ Mace. La sua grandezza sta nella capacità di connettere tanti artisti che altrimenti non si sarebbero incontrati. Io e Venerus ci siamo conosciuti così. All’inizio, mi rendevo conto che c’era un po’ di distanza ma quando ci siamo sciolti sono stato felicissimo. 

Quella con Andrea è un’amicizia che mi piace tantissimo e, dopo la stima reciproca, lui è stato il primo, insieme a Filippo/siliebo, il suo produttore, ad aver ascoltato il test press [una copia di prova del disco ndr.] di Pezzi della sera

Lui era a Pozzallo, un paesino in provincia di Siracusa, sono andato lì e abbiamo ascoltato il vinile che per me era il primo disco fatto da solo, lo avevo mixato da solo, lo avevo appena finito di masterizzare e avevo appena mollato tutte le etichette, quindi, ero molto molto in tensione. 

Mi ricordo che era entusiasta e poi, in quegli stessi giorni lì, mi ha detto che aveva in mente questo giro di chitarra. È successo tutto durante la colazione a Ortigia che, mi raccomando, è il centro storico di Siracusa, ogni volta c’è qualcuno che pensa siano due città separate.  Eravamo lì e c’erano tanti gatti e a lui è venuta l’idea di scrivere il pezzo. 

Sono andato insieme alla mia ragazza nella villetta dove alloggiavano e in un pomeriggio abbiamo messo giù le strofe. 

Il pezzo è quello che ascolti oggi, abbiamo solo aggiunto in seguito i flautini di Pietro Selvini che suona il sax con me ed è anche il cantante dei Tropea. 

Come tutte le cose belle, quelle che nascono spontaneamente, Felini si è rivelata anche efficace. 

Quella del 16 luglio a Sassari è una delle tappe del tour estivo di Pezzi della sera, che hai rivelato essere l’ultimo dedicato a questo album del 2023. Come ti senti all’idea?

Finalmente, perché un po’ mi sono annoiato di suonare sempre le stesse canzoni [ride]. 

Hai annunciato poi la lavorazione di un nuovo album. In un’intervista di qualche tempo fa hai detto “È un disco che ancora non ho capito, c’è un mood un po’ diverso”. Ci sono nuove consapevolezze che hai acquisito nell’ultimo periodo? 

Diciamo che questo disco è stato scritto e finito a cavallo di una spaccatura molto grande e di una mia presa di coscienza importante.

Mentre lo registravo ero nel pieno down di questo momento per cui è stato un po’ strano perché non riuscivo a capire se i pezzi li percepissi in una certa maniera perché magari non ero nel migliore degli umori o se perché effettivamente i pezzi fossero presi male. 

In ogni caso, sono andati avanti perché penso che il senso del disco sia quello di dare uno spaccato di questo momento, è un po’ una fotografia di quello che si è in un preciso istante. Non capisco ancora questo mood perché il disco mi piace ma quando lo ascolto non mi porta in luoghi spensierati e divertenti e luminosi come quelli dei precedenti. 

Hai già una data di uscita?

Non ancora, la parte creativa è finita ma c’è ancora tanto lavoro davanti: c’è il mixaggio, il master, bisogna aggiungere i fiati, le chitarre, gli archi. Spero di riuscire entro l’anno ma senza pressioni. 

Il dialetto rimarrà centrale come nelle tue passate produzioni? 

Sì assolutamente. 

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Che ne pensi del nuovo valore che si sta dando alle parlate regionali nella musica contemporanea?

Dico che era ora. La cosa più brutta che è successa negli ultimi ottant’anni è stata la progressiva americanizzazione, sotto ogni punto di vista: dal cinema, alla musica, al cibo, ai vestiti, alla cultura.

È stato un po’ schiacciato il patrimonio culturale delle piccole realtà.

Se uno fa l’artista è perché ha qualcosa da esprimere, ed è giusto esprimerlo con la verità e la sincerità di ciò che si è. Ho fatto un po’ fatica quando ero piccolo, e mi trovavo a suonare altri generi, a entrare nelle scarpe del metallaro, o nelle scarpe del rasta perché magari suonavamo metal o reggae o punk, e quindi dovevamo anche impersonare il genere che suonavamo.

Mi chiedevo: ma cosa c’entro con questa roba? Io sono nato qua [a Siracusa ndr.], con mia nonna che mi faceva il pane con l’olio, perché adesso sto facendo finta di essere un celtico con le borchie o un gangsta’ palestrato del ghetto?

A un certo punto, per me è diventato fondamentale capire chi ero, per poterlo esprimere. Se manca questa cosa qui diventiamo un po’ più tristi. 

 

Una sorta di contrappeso all’energia omologante della globalizzazione?

Se vuoi sì, anche se dovrebbe essere semplicemente la maniera naturale con cui qualcuno si esprime. Perché prendere un altro linguaggio? Perché cercare di essere qualcosa di altro? Posso capire chi dice di non avere un retaggio particolare a cui attingere ma nel mio caso, nel caso del Sud Italia, siamo talmente pieni di riferimenti, per cui prendere a modello una realtà nata l’altro ieri mi sembra una cosa alquanto squallida.

 

Sono ormai due anni dalla fondazione della tua etichetta Megghiu Suli, si sta effettivamente meglio da indipendenti? 

Megghiu Suli è un gioco di parole perché “suli” in siciliano significa “soli” ma anche “sole”. 

In realtà, non si combina niente da soli. Il riferimento era a tutto quello che avevo prima: etichette, major, un'agenzia di booking. 

Tutte queste cose intorno a me avrebbero dovuto farmi crescere ma avevo la sensazione che mi stessero bloccando. A fronte di questo, ho chiamato l’etichetta Megghiu Suli.

Nonostante sia molto faticoso, il fatto di sentirsi responsabili dei propri successi e delle proprie sconfitte alla fine è la cosa più bella che c’è. Nell’altra maniera, se le cose vanno male, sotto sotto vai sempre un po’ a cercare il colpevole, qualcuno con cui prendertela. 

Da indipendente so che, colpa o merito che sia, è tutto attribuibile a me. Soprattutto, sono libero di fare quello che voglio. Sono sempre stato abbastanza libero di farlo anche prima, ma il senso di libertà di adesso viene dal fatto che mi sento appagato, soddisfatto, non sono frustrato da attese infinite e altre dinamiche che non dipendono e non interessano a un ragazzo di 25 anni che non vede solo l’ora di far uscire il suo nuovo album. 

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