Chi sono i Velvet Sundown, band AI che spopola su Spotify
Musica Fonte: Velvet Soundown
I Velvet Sundown sono la band che non esiste ma raccoglie più di un milione di ascoltatori mensili su Spotify e solleva domande su identità, creatività e futuro della musica
In apparenza, i Velvet Sundown sono l’ennesima band indie che spunta su Spotify: quattro volti affascinanti, sonorità retrò, due album all’attivo e un terzo in arrivo. In realtà, non esistono. Gabe Farrow, Lennie West, Milo Rains e Orion “Rio” Del Mar sono personaggi fittizi, generati dall’intelligenza artificiale insieme alle loro voci, ai loro brani, alle copertine dei dischi e persino ai testi delle interviste. Eppure, in poche settimane, hanno superato un milione di ascoltatori mensili, guadagnandosi spazio nelle playlist “chill”, “indie morning” e “coffeehouse rock” più seguite del mondo.
Dietro al progetto, dichiaratamente creato con strumenti come Suno per la parte musicale e ChatGPT per contenuti testuali e visivi, non c’è alcuna etichetta discografica tradizionale né un frontman in carne e ossa. Ma c’è un’intenzione chiara: quella di “provocare”, come dichiarano i suoi autori, “per stimolare il dibattito su diritti, identità e futuro della creatività musicale”.
Psichedelia, algoritmi e nostalgia
"Non è un trucco, è uno specchio. Una provocazione artistica continua, pensata per sfidare i confini dell'autorialità, dell'identità e il futuro della musica stessa nell'era dell'intelligenza artificiale" dichiarano gli stessi su Spotify. Il caso Velvet Sundown ha iniziato a far discutere a giugno, quando due album a nome della misteriosa band sono comparsi all’improvviso su Spotify, Amazon Music, Apple Music e altre piattaforme di streaming. Nessuno sembrava averne mai sentito parlare prima: nessuna traccia online, nessun passato documentato. Eppure, nel giro di pochi giorni, i Velvet Sundown hanno totalizzato centinaia di migliaia di ascolti, proponendo un sound descritto come "una fusione tra texture psichedeliche anni ’70, alt pop cinematografico e soul analogico". Ascoltare i Velvet Sundown significa tuffarsi in un universo sonoro che richiama la West Coast degli anni ’70, le ballate acustiche folk e il dream pop da sottofondo. Atmosfere morbide, testi vagamente malinconici, sound studiato per essere "chill". Una formula che sembra funzionare considerando che critici di testate del calibro di The Atlantic li hanno definiti “profondamente innocui, ma perfetti per diventare la colonna sonora delle nostre vite quotidiane”. Proprio questa innocuità solleva le prime perplessità: quanto possiamo affezionarci a una band che non ha storia, conflitti, imperfezioni? Che non rischia nulla ma produce esattamente ciò che ci si aspetta da lei?
La musica generativa è già tra noi
I Velvet Sundown non sono un caso isolato. Dai primi esperimenti di AIVA — compositrice AI riconosciuta ufficialmente in Francia — al gruppo NPC di Grimes, passando per il rapper virtuale FN Meka (rimosso dopo accuse di stereotipi razziali), la musica generata da intelligenze artificiali è sempre più presente sulle piattaforme. Anche senza grandi campagne marketing, questi progetti riescono a scalare le classifiche grazie a un sistema perfettamente ottimizzato: l’ascolto passivo. Playlist tematiche come “Focus”, “Sleep”, “Lofi” o “Relax & Unwind” sono terreno fertile per contenuti pensati per accompagnare e non distrarre. In questo contesto, l’AI può creare centinaia di brani coerenti e gradevoli, pronti a entrare nei flussi d’ascolto quotidiani.
Trasparenza, etica e mercato
La questione più urgente riguarda la trasparenza. Spotify non obbliga (ancora) a etichettare i brani generati da AI, a differenza di piattaforme come Deezer, che stanno introducendo tag specifici. Ma la richiesta di regole più chiare è sempre più forte: da Elton John a Dua Lipa, molti artisti chiedono di distinguere l’umano dal sintetico. Non si tratta solo di proteggere diritti d’autore, ma anche di difendere l’idea stessa di autenticità nella musica.
Cosa succede quando il pubblico non è in grado di riconoscere se un brano è stato scritto da una persona o da un algoritmo? E cosa resta dell’arte, se a emozionarci è qualcosa che non ha mai provato un’emozione?
Funziona perché è comodo. Preoccupa perché è vuoto?
Nel caso dei Velvet Sundown, l’illusione funziona proprio perché è ben confezionata. Le foto dei membri della band, i testi pseudo-intimisti, le melodie nostalgiche: tutto è studiato per generare una forma di empatia superficiale, sufficiente a farci cliccare su “play”. Ma dietro quei brani non c’è alcun vissuto, alcuna vita reale.
Eppure, in un’epoca dove il contenuto viene spesso consumato più che ascoltato, questo potrebbe bastare. I critici parlano già di una “nuova estetica del vibe”: meno personalità, più atmosfera. Meno storie da raccontare, più algoritmi da seguire.
Il futuro è ibrido (e regolato)
Non tutto, però, è distopico. La direzione più interessante sembra essere quella dell’ibridazione: intelligenze artificiali come strumenti al servizio della creatività umana. È il caso di progetti come SophiaPop o delle colonne sonore firmate AIVA, dove AI e artisti reali collaborano. Oppure dell’installazione sonora Kórsafn di Björk, che reagisce in tempo reale ai dati ambientali. Quel che è certo è che serviranno regole nuove. Etichette trasparenti, remunerazioni eque, tutela della creatività umana. Perché se anche l’AI può comporre una ballata perfetta per il tramonto, a oggi — ancora — non è detto che possa scrivere un pezzo che ci spezzi il cuore.