Marta De Lluvia: "La Festa che non c'era è un album che guarda in faccia la vita"

Musica
Fabrizio Basso

Fabrizio Basso

Il nuovo lavoro della cantautrice e poetessa di Recanati è un ponte che parte da storie e canzoni vecchie per attraversare il presente e toccare il nuovo. L'INTERVISTA

 

La festa che non c’era è il secondo album in studio della cantautrice e poetessa recanatese Marta De Lluvia. Dopo Grano, questa artista torna a far sentire la sua voce con un lavoro interamente autoprodotto, cui hanno preso parte due arrangiatori e numerosi musicisti di ambiente romano. La produzione artistica e gli arrangiamenti sono di Edoardo Petretti, con Federico Ferrandina agli arrangiamenti e alla direzione degli archi. Le dodici tracce sono fortemente autobiografiche, tuttavia le esperienze e gli stati d’animo vengono condivisi con la speranza di incontrare e abbracciare quelle di altri. Il disco raduna sentimenti forti: la nostalgia, la passione, la rabbia, il rimpianto, la tristezza, la felicità assoluta, la gratitudine più profonda. 

Marta partiamo dalla storia de La Festa che non c’era: un album nato durante la pandemia ma che sembra attraversare ogni dimensione temporale, come fosse una macchina del tempo fuori controllo.
Durante la pandemia mi sono fermata e quando ho raccolto i pezzi per costruire l’album ero incinta. C’erano cose del passato ma scritto nel presente con una visione nel futuro. Lo vedo anche io come macchina del tempo, se lo esamino canzone per canzone noto momenti diversi della mia vita ma c’è anche quello che li unisce: è un modo di guardare la vita, un impegno verso la vita stessa a non tirarsi indietro.

La tracklist dell’album segue un ordine cronologico di nascita dei brani o ha un ordine poetico mentale?
Un ordine poetico, come un discorso. Poi c’è una legge di ritmo e varietà come in ogni disco.

Mare, l’uomo è andato oltre la luna e punta su Marte ma non scende nei fondali oceanici: è un limite tecnologico o è paura dell’ignoto?
Nei fondali marini forse ci arriveremo, certo ci sono ancora molti limiti tecnologici. Ma mai arriveremo nei fondali dell’animo umano. Il brano è attrazione e paura della morte, intesa come lasciarsi andare, trasportare. Per me stessa io sono insondabile.

Se dovessi fare un bilancio sui tuoi “pezzi di cuore sparsi qua e là” sarebbe un saldo emotivo in attivo o in rosso? In Miele dici “poche cose vale la pena di ricordare”, per altro.
Sono prospettive diverse; i pezzi di cuore sono relativi alle emozioni, magari anche a certi amori e al percepito in alcuni momenti e con alcune persone, è un luogo poetico che non raccogli mai, non sai a volte neanche bene cosa siano state certe situazioni della vita. Invece le cose che vale la pena ricordare non sono tante.

La Festa che non c’era e Malerba, seppur da due prospettive diverse, parlano di radici: quanto sono salde le tue e credi che oggi, in questa società fluida, siano freno o forza?
Ha ragione Cesare Pavese, tutti abbiamo una terra interiormente a prescindere che la riconosciamo e dal rapporto con questa idea. C’è sempre una origine di partenza e con le origini ci si fanno i conti, la fluidità è bella solo se sai da dove viene perché quando tutto è poco chiaro una parte di te non è definita. A cosa appartengo è un punto che ognuno di noi fa nella maturità: non critico la fluidità dei giovani che comunque è ricerca.

Ami la letteratura russa? Pietroburgo mi è sembrata una versione contemporanea della Prospettiva Nevski di Franco Battiato: ci hai pensato?
Ho studiato letteratura russa a 19 anni e mi ha folgorato, sia la lingua che la letteratura stessa. Ho amato la letteratura dei grandi che è quella dei dissidenti che hanno pagato con la vita e la galera. La fascinazione del territorio russo è un mondo immenso che scorre nella letteratura e nell’arte. Quella realtà dura ha permesso certi voli dell’animo. Non c’è un riferimento al brano di Battiato, la mia è una Pietroburgo con le sue notti bianche e il senso di sogno e sospensione che dava la città, è l’illusione di poter vivere altre vite.

C’è di Più è la canzone dell’incompletezza, delle occasioni perse o dalle quali ci siamo salvati, è forse il testo più melanconico dell’album: è uno stato d’animo che ti appartiene oppure entro sporadicamente nella tua vita?
È il mio principale, è diventato una abitudine già da bambina: mi ci sono abituata e poi tra letture e canzoni ti ci affezioni. È del 2013 quella canzone: è la canzone dei non incontri, del non capirsi perché in quella stagione della vita cerchi più te stesso che un altro. Oggi ci sorrido ma allora ci ho pianto. L'ho scritta come una premonizione: avevo un rapporto a distanza e quelle parole sono state scritte prima che ci vedessimo e avevo previsto tutto: le cose si sanno prima di saperle.

Il senso della caduta di In Amore lo trovo erotico: i “due puzzle confusi per terra” si cercano o si fuggono?
Né l’uno né l’altro, sono insieme e confusi, è la fatalità di quando ci si innamora. Vorresti scappare ma resti lì nella confusione. In amore si cade sempre.

Quanto costa un grammo di perdono? Ma soprattutto il perdono ha un prezzo o è l’evangelico porgi l’altra guancia?
Parlo del perdono verso se stessi. La metafora è con la droga, penso al male che c’è quando uno non è in pace con sé. Ora ho capito dove cercarlo, è un’altra canzone con una decina d’anni e porta una oscurità più grande di quella che ho ora ma ringrazio di averla attraversata perché è stata illuminante.

Ti piacerebbe un calendario senza settembre?
No. Non vorrei niente che non fosse come è. L’esercizio della vita è accettarla, devo tanto a quella melanconia.

Che accadrà nelle prossime settimane?
Sto cercando di mettere insieme dei live. C’è anche da sistemare casa e c’è un bambino piccolo. Sto leggendo e scrivo piccole cose, i miei sono semi lenti a crescere. Vorrei suonare per poche persone, mi piace la formula degli house concert. Anche i club a volte non so quanto facciano per me.

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