È arrivato al cinema "Harvest Time", il documentario sul leggendario album di Neil Young

Musica

Manuel Santangelo

©Kika Press

La nascita del disco di maggior successo del cantante canadese viene raccontata in questa opera, dal primo dicembre nei cinema. A cinquant’anni di distanza Harvest resta ancora un capolavoro in grado di ricordare un periodo unico, in cui si poteva fare musica senza troppe sovrastrutture

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Neil Young dice che Harvest è il suo album migliore e non è una valutazione banale, soprattutto se si tiene a mente la grande prolificità dell’artista canadese. Sarebbe sbagliato tuttavia credere che Young abbia una così grande considerazione del suo quarto disco solista solo perché è quello che gli ha fatto toccare l’apice della fama. Anzi, conoscendo la natura tutto sommato schiva del cantante, questo riconoscimento nazionalpopolare forse sarebbe più un deterrente dal suo punto di vista. A rendere tanto speciale Harvest è quella magia che nacque al momento della creazione dell'album, in un periodo di grande ispirazione per Young. Quell’atmosfera speciale è ora restituita in Harvest Time, il documentario in cui si racconta grazie a inediti filmati d’epoca la genesi di un capolavoro.

Il trionfo della spontaneità

In un’epoca di dischi eccessivamente post-prodotti e canzoni create quasi in laboratorio fa impressione constatare quanto Harvest nasca in maniera spontanea e quasi naturale. “Non so come sono nate le canzoni, è successo e basta, ho già cercato di spiegarlo, ma non ci sono riuscito”, dice sincero l’artista in questo documentario dal titolo quasi omonimo a quello dell’album. Harvest Time racchiude in più o meno due ore un momento speciale nella vita di Neil Young e in generale nella storia della musica. In quel 1972 nacque una lista incredibile di opere che sarebbero poi invecchiate benissimo, al punto da venir riconosciute alla stregua di classici. Forse, a spiegare questo momento d’oro c’è proprio la libertà assicurata in quel periodo agli artisti, una libertà che permetteva a Neil Young di trovare un gruppo country e andare con questa compagnia a registrare in uno sperduto ranch dell’Alabama, senza paura di condizionamenti esterni. Anche le riprese che oggi sono il corpus di questo documentario nacquero senza un piano preciso e con naturalezza, al punto che è lo stesso cantante ad ammettere a un certo punto: “Stiamo solo facendo un film su... non so, solo sulle cose che vogliamo filmare. Non c'è davvero un grande progetto o altro. Lo sto facendo come un album, più o meno”. Mezzo secolo dopo quelle riprese serviranno a dare un’istantanea di un contesto irripetibile ma di cui, ai tempi, neanche il capellone Neil Young sembra rendersi del tutto conto.

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Una buona semina porta a un buon raccolto

Harvest Time è firmato da tale Bernard Shakey, ma non vi fate ingannare: il lavoro è tutta farina del sacco di Young che usa quell’alias per gioco o forse per nascondere la genesi di un’opera che è in realtà molto intima e personale. L’autore di Harvest nel 1972 era il sogno di qualunque addetto alla selezione del personale: giovane ma con esperienza. A neanche 25 anni aveva già alle spalle un’avventura di successo nei Buffalo Springfield e, parallelamente alla carriera solista, mandava avanti un progetto con i sodali Crosby, Stills e Nash. Questi ultimi sono solo tre delle persone importanti nella vita di Young che si evocano in Harvest Time (e si ascoltano in Harvest). C’è spazio anche per artisti e soprattutto grandi amici come Linda Ronstadt o James Taylor, che si sentono ai cori in brani come la hit Heart of Gold o Old Man. Quest’ultimo pezzo, dedicato all’anziano guardiano del Broken Arrow Ranch in cui si registrò, è il manifesto di un’opera in cui un Neil Young che si sente “più libero ora di quanto si fosse mai sentito prima” si mette davvero a nudo. C’è tutto il cantante canadese in questo album, ciò che ama (A Man Needs a Maid è dedicata alla fidanzata del tempo Carrie Snodgress) e ciò in cui crede (l’antirazzista Alabama, che gli causò qualche problemino con la gente del sud e con i Lynyrd Skynyrd). C’è anche spazio per la denuncia di una piaga sociale come la droga, che di lì a poco si porterà via anche l’amico Danny Whitten dei Crazy Horse cui era dedicata The Needle and the Damage Done.

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Una celebrazione speciale per un disco speciale

Oggi proprio la scomparsa di tanti che hanno partecipato a questo disco, in primis i membri della band country di supporto (gli Stray Gators), fa rifiutare a Young la possibilità di suonare per intero Harvest dal vivo, nonostante le tante offerte. La magia di quel disco si potrà riassaporare solo attraverso questo documentario o tramite il cofanetto speciale in uscita il 2 dicembre in edizione limitata e con tanti contenuti inediti. Anche una persona come Neil Young che non si fa scrupoli a esprimere dure critiche, in primis verso se stesso e il proprio lavoro, oggi riconosce la grandezza di Harvest e ne parla come di un figlio prediletto: “Questo disco è stato uno spartiacque nella mia vita. Ho suonato con alcuni grandi amici ed è davvero bello che questo album sia durato così a lungo. Mi sono divertito moltissimo e ora, quando lo riascolto, penso di essere stato davvero fortunato ad essere lì”. Anche noi possiamo dirci fortunati a poter godere del frutto di un raccolto (in inglese non a caso “harvest”) tanto proficuo, oggi come mezzo secolo fa.

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