Alex Infascelli racconta l'intera carriera del fuoriclasse ed ex capitano della Roma in un documentario "totti-centrico" in cui la sua è l'unica voce narrante
La cerimonia di addio al calcio di Francesco Totti, avvenuta allo stadio Olimpico di Roma nel tardo pomeriggio del 28 maggio 2017, pochi minuti dopo la partita Roma-Genoa valida per l'ultima giornata di campionato, è uno dei momenti più strazianti della storia del nostro sport: uno stranissimo e irripetibile funerale di un uomo ancora vivo, molto ricco e in ottima salute, che annunciava al suo popolo, senza alcun pudore, di avere paura: paura del futuro, paura di cosa sarebbe diventata la sua vita senza Roma, senza partite, senza pallone. (L'INTERVISTA AD ALEX INFASCELLI - LA GALLERY DEL BACKSTAGE - LO SPECIALE SULLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA)
Per comprendere come mai l'uscita di scena di Totti (altamente studiata e spettacolare, con 70mila spettatori in lacrime e una grandiosa colonna sonora di compositori romanisti come Ennio Morricone e Nicola Piovani) ha suscitato così tanta emozione e unanime commozione in tutti i tifosi italiani, un popolo solitamente più diviso dell'Italia dei Comuni nel Tredicesimo Secolo, il documentario di Alex Infascelli è un ottimo punto di partenza. Si basa sull'autobiografia dello stesso Totti, scritta insieme a Paolo Condò, e ne fa propria la voce narrante, che fa volontariamente scempio delle più elementari nozioni di speakeraggio e dizione per dare la versione più vera e autentica possibile della vita e dei miracoli del cosiddetto Pupone (soprannome mai citato in un'ora e 45 minuti). Mi chiamo Francesco Totti è un raro caso di documentario biografico, non solo sportivo, senza nessuna intervista al di fuori del protagonista: parla solo Totti, che sembra quasi commentare in presa diretta le immagini al montaggio (molto arguta la trovata del “torna indietro”, con il nastro dei vecchi filmini che si riavvolge...).
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Su queste basi, inevitabile il rischio di cadere nell'agiografia. Come fare altrimenti, come altro mettere in scena questa storia di predestinazione in cui lo stesso Totti a un certo punto si stupisce, “troppe cose ho pensato e sono successe”? Pur avendo seminato in venticinque anni una lunga scia di polemiche, ironie e detrattori, Totti è stato l'ultimo simbolo di fedeltà del calcio italiano, il più iconico e romantico degli one-club men, per usare la lingua della proprietà che lo ha (neanche troppo gentilmente) accompagnato all'uscita dal calcio giocato. Da questo punto di vista Mi chiamo Francesco Totti, titolo che strizza l'occhio al famoso proclama di Russell Crowe/Massimo Decimo Meridio nel Gladiatore, ha buon gioco a smussare gli spigoli: l'ex presidente James Pallotta non viene mai nominato e sulla lavagna dei cattivi ci finisce il solo Luciano Spalletti, sicuramente il braccio ma probabilmente non la mente dell'operazione. Infascelli preferisce la costruzione e la celebrazione di un simile monumento che – abbracciando almeno tre diverse generazioni di calcio e calciatori – mette molta più carne al fuoco rispetto ai protagonisti-standard di documentari del genere, su tutti il Diego Maradona di Asif Kapadia (2019) che si concentrava più prudentemente solo sul periodo napoletano del fuoriclasse argentino. Invece con Francesco non si può: perché il Totti romano è un unico blocco di marmo, dai super-8 in spiaggia da bambino alla sua ultima notte di quiete (si fa per dire) da quarantenne: si può giusto glissare a volo d'angelo sui tanti piazzamenti del periodo 2006-2017, e per motivi di spazio bisogna sacrificare le pagine chiare e le pagine scure vissute in azzurro (per Totti, colore sempre secondario al giallorosso) con una doverosa eccezione solo sul Mondiale 2006. A giudicare dal prodotto finale, è stato giusto così: e la scena migliore arriva alla fine, sulle immagini dell'ultimo valzer, con una felicissima scelta musicale che non vi sveleremo, per non guastarvi la sorpresa e l'emozione. Perché le immagini che catturano la solitudine di un uomo in quell'istante mai così vicino all'essenza di bambino fanno piangere, e la sensazione è che – se vi stanno a cuore il personaggio e l'argomento – vi ritroverete con gli occhi umidi anche alla seconda, terza, decima o centesima visione.