Monsieur Aznavour, la recensione del biopic su un artista incapace di fermarsi

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Diviso in cinque capitoli come una partitura musicale, Monsieur Aznavour è il biopic diretto da Mehdi Idir e Grand Corps Malade che racconta gli esordi del grande chansonnier francese, figlio di rifugiati armeni, tra successi tardivi, incontri decisivi e un’ambizione mai pacificata. Interpretato da Tahar Rahim, il film arriva nei cinema italiani dal 18 dicembre, distribuito da Movies Inspired, e riflette sul prezzo del talento e sull’impossibilità di fermarsi.

Recensione del film con Tahar Rahim, al cinema dal 18 dicembre

Un taccuino rosso e l’inizio di tutto

Monsieur Aznavour si apre con un gesto semplice, quasi dimesso: un taccuino rosso. Siamo a Lione, nel 1960. Charles Aznavour è senza soldi, stanco, convinto di essersi sopravvalutato. Parla con la sorella maggiore Aïda Aznavour-Garvarentz, musicista, moglie del compositore Georges Garvarentz, presenza costante e silenziosa nella sua vita. È un dialogo intimo, domestico, lontano dal mito. Poi Charles prende una penna, apre il taccuino e scrive il titolo del primo capitolo: Les Deux Guitares.

Subito dopo, il film guarda indietro. Una fotografia dei genitori, e l’infanzia prende forma. Charles Aznavourian nasce il 22 maggio 1924 a Parigi, in rue d’Assas, nel VI arrondissement, da genitori armeni sopravvissuti al genocidio: il padre Micha, cantante, e la madre Knar, attrice e sarta. In casa si parla di teatro, di musica, di sopravvivenza. Fin da bambino Charles viene spinto sul palco. Non come privilegio, ma come necessità.

Una voce nata come limite clinico e diventata destino artistico: Aznavour ha cantato perché non aveva alternative.

Cinque capitoli come una partitura

La struttura del film è dichiarata e rigorosa: cinque capitoli, ciascuno intitolato a una canzone simbolo del suo repertorio – Les Deux Guitares, Sa jeunesse, La Bohème, J’me voyais déjà, Emmenez-moi. Mehdi Idir e Grand Corps Malade non raccontano una carriera in senso enciclopedico: mettono in scena un’ossessione. Ogni capitolo è un’epoca, ma anche uno stato d’animo, una tappa emotiva più che cronologica. Non a caso il film si concentra soprattutto sugli inizi: sugli anni della fame, delle umiliazioni e della costruzione di un’identità, lasciando che i trionfi arrivino più per accumulo che per cronaca. La musica non commenta la vita: la precede, la anticipa, la contraddice.

Pierre Roche ed Édith Piaf: gli incontri che segnano

Il secondo e il terzo capitolo seguono la formazione artistica e l’incontro con Pierre Roche, pianista e partner di scena, interpretato con eleganza malinconica da Bastien Bouillon. Il loro sodalizio è una storia di amicizia e di equilibrio instabile. Roche rappresenta ciò che Aznavour non sarà mai: più leggero, meno divorato dall’urgenza di arrivare.

Fondamentale è poi Édith Piaf, interpretata da Marie-Julie Baup, che evita ogni caricatura. È una Piaf magnetica, protettiva e insieme soffocante. Lo scopre nel 1946, lo porta in tournée in Francia, negli Stati Uniti, in Canada. Gli apre il mondo, ma ne rallenta l’emancipazione. «Piaf poteva dare uno schiaffo e una carezza nella stessa frase», ricordano i registi. Il film fa di questo rapporto una vera linea di frattura.

Il cuore del film è J’me voyais déjà. Aznavour diventa famoso tardi. Quando finalmente arriva il successo – Olympia, Sur ma vie, le classifiche – non è una liberazione.
Il successo arrivò tardi e non lo mise mai al riparo dal dubbio di essere ancora fuori posto.

Gli anni Sessanta scorrono tra trionfi (La Mamma, For Me… Formidable, Que c’est triste Venise, La Bohème) e un’inquietudine che non si placa. New York, Montréal, la Carnegie Hall non sono raccontate come apoteosi, ma come ulteriori esami. Anche l’America lo misura prima di accoglierlo.

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Tahar Rahim: incarnare senza imitare

A reggere l’intero film è la prova radicalmente fisica di Tahar Rahim. Dopo mesi di lavoro su corpo, voce, pianoforte, Rahim non imita Aznavour: lo abita. «Non si trattava di imitarlo, ma di incontrarlo a metà strada», ha spiegato l’attore. Ne restituisce la postura, il fraseggio, ma soprattutto la tensione interna. Un uomo che non sa fermarsi nemmeno quando ce l’ha fatta.

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La colonna sonora: una vita raccontata in musica

La colonna sonora di Monsieur Aznavour non accompagna il film: lo attraversa.
Accanto ai brani iconici (La Bohème, Je m’voyais déjà, Sur ma vie, Emmenez-moi, For me… formidable, Comme ils disent), il film lavora sullo scarto tra la voce storica di Aznavour e quella di Tahar Rahim, più fragile, più esposta, più umana. Rahim canta davvero, e il canto diventa parte del racconto: non virtuosismo, ma fatica, insicurezza, resistenza.

Accanto alla chanson, emergono innesti inattesi – dal pop internazionale all’hip hop – che raccontano il modo in cui Aznavour ha attraversato il tempo e le generazioni, fino agli ultimi anni. La musica diventa così una drammaturgia invisibile, capace di raccontare meglio di qualsiasi dialogo il paradosso centrale del film: cantare l’amore mentre si vive la solitudine.

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viaggiare per restare vivi

Il film sfiora la vita privata senza mai farne un centro. Matrimoni, figli, assenze restano ai margini, fino allo strappo più doloroso: la morte del figlio Patrick, a soli 25 anni. Il funerale è muto, non spiegato, non commentato. Non c’è musica che tenga. Il dolore non viene raccontato: viene lasciato lì, nudo, irriducibile.

Subito dopo, Aznavour è di nuovo con Aïda. Lei gli dice di fermarsi, di concedersi una pausa che avrebbe tutto il diritto di prendersi. Lui risponde con una frase disarmante, quasi infantile nella sua sincerità: ha bisogno di vedere gente. Non di elaborare, non di guarire. Di muoversi. Di essere altrove.

Da qui Monsieur Aznavour cambia forma. Il racconto si frantuma in riprese amatoriali in 4:3: Aznavour in viaggio per il mondo, dal Brasile al Senegal, dall’Unione Sovietica a nuovi palcoscenici. In sottofondo risuona Emmenez-moi, che smette di essere una canzone e diventa una necessità vitale. Dopo un’esibizione in un talk show americano, il manager lo informa che negli Stati Uniti avrà lo stesso cachet di Frank Sinatra. È accolto come un re, ma sul suo volto non c’è trionfo: c’è esitazione. Non sa se ridere o piangere.

I pensieri tornano indietro. Ai genitori. A Patrick. A Édith Piaf. E riaffiora una frase del padre, semplice e devastante:
«Guarda da dove siamo partiti e guarda dove siamo arrivati».
Aznavour ammette di aver lavorato tutta la vita per raggiungere i suoi obiettivi e di non sapere cosa fare ora che li ha raggiunti. Non è abituato alla quiete. Aïda lo invita ancora una volta a rallentare. Lui, in lacrime, risponde con la frase che chiude ogni possibilità di pace: «Se mi fermo, muoio».

Conclude la telefonata con un fragile «Andrà tutto bene. Ti richiamo». Poi prende il taccuino. E ricomincia a scrivere. Parte Hier Encore.

Sulle note della canzone vediamo il vero Aznavour, nelle sue ultime esibizioni dal vivo. Il corpo segnato, la voce ancora presente. Poi una voce da telegiornale annuncia la fine: una leggenda della canzone francese, figlio di rifugiati, simbolo della cultura francese nel mondo.
L’ultima immagine è la stella sulla Walk of Fame. Non come apoteosi, ma come epilogo silenzioso.

Perché Monsieur Aznavour lo dice chiaramente, fino all’ultimo fotogramma: per lui viaggiare, cantare, scrivere non erano scelte artistiche, ma un modo per restare vivo.

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Se Monsieur Aznavour fosse un cocktail, si chiamerebbe Formidable

Come la canzone, come l’ironia amara di chi ostenta sicurezza mentre continua a tremare. È un drink francese, d’altri tempi, che non cerca l’effetto speciale ma lavora per stratificazione: un Cognac profondo come la memoria, un vermouth secco che porta con sé l’amaro dell’attesa, una goccia di Chartreuse per l’ostinazione che spinge sempre avanti. Nessuna decorazione, solo una lieve traccia d’assenzio a evocare l’inquietudine.

Non è un cocktail da aperitivo, ma da fine serata. Da bere lentamente, quando restano solo la musica e i conti con se stessi. E quando il bicchiere è vuoto, non resta l’ebbrezza del successo, ma una malinconia lucida: quella di chi ce l’ha fatta senza mai sentirsi davvero al sicuro. Proprio come Charles Aznavour.

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