Piero Pelù - Rumore dentro, dal deserto interiore alla rinascita. La recensione

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Il film di Francesco Fei, presentato alla Mostra di Venezia, è nelle sale come evento speciale solo il 10, 11 e 12 novembre. Un viaggio intimo e politico nell’anima del rocker dopo l’incidente acustico che gli ha causato acufeni devastanti. Tra Firenze, la Camargue e il deserto, Pelù ritrova la musica e la libertà, firmando un’opera poetica e ribelle sul coraggio di restare vivi

C’è un istante, in Piero Pelù. Rumore dentro, in cui la musica tace ma tutto vibra.
È un film che non si guarda: si respira. È un rito laico, una messa rock in cui il dolore diventa ritmo e la perdita si trasforma in visione. Pelù, l’uomo che per quarant’anni ha urlato sul palco con i Litfiba, si ritrova improvvisamente prigioniero di un fischio costante, di un rumore dentro che rischia di distruggere ciò che lo ha reso vivo: il suono.

Il viaggio dopo il silenzio

Diretto da Francesco Fei, già complice visivo di Pelù dai tempi di Regina di Cuori, il film è un racconto intimo e libertario, presentato alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia.
Tutto parte da un trauma: nell’ottobre 2022, un errore tecnico in studio provoca un violento shock acustico. L’acufene che ne segue è continuo, insopportabile. Il tour salta, la voce si ritira, la vita si ferma.

Ma per Pelù, fermarsi non significa arrendersi.
Significa attraversare il deserto. Letteralmente. Il deserto marocchino, dove si perde tra rocce, sabbia e vento per dimenticare il dolore e riscoprire la musica.
“Bisogna perdersi per ritrovarsi”, sembra sussurrare ogni immagine.
E così, tra la Camargue di Santa Sarah la Nera — protettrice dei viaggiatori — e le strade di Firenze, nasce un nuovo capitolo: umano, artistico, spirituale.

Un film che suona come un album

Fei costruisce Rumore dentro come un concept album visivo, dove ogni brano è un frammento di memoria.
Tra i titoli che punteggiano il film ci sono Maledetto cuore, Novichok, Deserti, Scacciamali, Picasso, Canto e Porte.
Brani nuovi che dialogano con le pietre miliari dei Litfiba come El Diablo, La Preda e Tziganata, fino all’iconico Il mio nome è mai più, scritto con Ligabue e Jovanotti per Emergency.

Ogni canzone diventa un’eco del suo corpo: ferito ma non domato.
La colonna sonora è una sinfonia della resistenza, dove il rumore non è solo acustico ma esistenziale.

Quando Pelù indossa la maschera da scheletro — quella dei Tre Allegri Ragazzi Morti — e il copricapo da cangaceiro, il film si apre come una festa dei morti, un Día de los Muertos personale, allegro e malinconico. È la celebrazione di chi ha danzato sull’orlo del silenzio e ha deciso di restare in piedi.

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L’uomo dietro il rocker

Pelù non è una rockstar da museo, ma un cittadino musicista.
Lo testimonia ogni suo gesto, ogni sguardo.
In una scena, tra un super 8 e una VHS dei tour in Russia, si riconosce la sua lotta contro l’idea malsana di ridurre la musica a “filodiffusione da ascensore”.
Il suo è un rock civile, solidale, pulsante.
E quando compare il libro Questo lavoro non è vita: La lotta di classe nel XXI secolo. Il caso GKN di Dario Salvetti e Gea Scancarello, si capisce che la politica e il privato, in lui, non si separano.
“Insorgiamo e lottiamo evitando la retorica”, sembra dire con lo sguardo.
Non è solo un artista: è un corpo sociale, un anarchico gentile, un uomo che si sporca le mani con il mondo.

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Firenze, la danza e la memoria

Tra le pieghe del film riaffiora la Firenze creativa di un tempo: quella dove la musica si intrecciava alla performance, dove lo spirito di Pina Bausch e Martha Graham aleggiava nei movimenti di una generazione che voleva cambiare tutto.
Fei e Pelù restituiscono quel respiro collettivo, fatto di teatro, punk e poesia, dove il passato, il presente e il futuro si abbracciano come in un manifesto di Saxoléine Pétrole de Sûreté del 1895 — la signora con la lampada accesa che illumina il muro, simbolo di un’energia che non si spegne.

Il rumore come resurrezione

Pelù lo dice senza enfasi: “Ne sto uscendo con le unghie e con i denti”.
La frase diventa il cuore pulsante del film.
Il rumore dentro non è più un nemico, ma una forza da domare.
L’acufene — quel fischio costante, quel timmiti che non lo abbandona mai — si trasforma in ritmo, in battito, in musica.
È la più grande lezione di questo viaggio: la sofferenza può diventare arte, se la attraversi fino in fondo.

Francesco Fei: la regia dell’anima

Fei, già autore di Segantini – Ritorno alla natura e X sempre assenti, filma Pelù come un fratello spirituale.
La sua regia è leggera ma intensa, immersiva, piena di empatia.
Evita ogni celebrazione e restituisce invece un ritratto che vibra di vita, malinconia e ironia.
Un film che non racconta un mito, ma un uomo che rinasce, con addosso tutte le sue crepe.

Il cocktail – “Desert Soul”

Un drink per accompagnare il film: mezcal, lime, un soffio di sale e una goccia di fumo liquido.
Si chiama “Desert Soul”, ed è il gusto di chi ha attraversato il vuoto e ha trovato la voce.
Va bevuto in silenzio, mentre scorrono i titoli e si ascoltano le ultime note di A Satana.
È un brindisi alla fragilità, alla resistenza, a quel rumore che, se impari ad ascoltarlo, diventa la tua melodia.

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