Confiteor, l’anima e il corpo del cinema secondo Bonifacio Angius. La recensione del film

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Vincitore del Premio Carlo Lizzani alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, Confiteor – Come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione arriva nelle sale dal 16 ottobre. Bonifacio Angius firma un film-cantico, una confessione barocca e perturbante, dove commedia e dramma si rincorrono come luce e ombra. Con Giuliana De Sio, Edoardo Pesce, Geppi Cucciari e Simonetta Columbu, un viaggio poetico dentro l’infanzia, la memoria e il cinema stesso

“Ci vuole sempre amore per raccontare una storia”

“E per raccontarla meglio lo devi aver perduto, l’amore, intendo.”
È la frase che apre Confiteor e che ne diventa il mantra, l’alfa e l’omega, come direbbe Angius stesso in una delle sue voice over sospese tra il dolore e la grazia. In questa frase si cela tutto: la perdita, il bisogno di raccontare, la pulsione vitale e autodistruttiva che anima ogni vero artista.
Angius interpreta sé stesso e dirige il figlio Antonio nel ruolo di sé bambino, in un film che è letteralmente un atto d’amore: verso il cinema, verso la vita, verso quel padre interiore che ci spinge a continuare a remare anche quando la Senna è in piena.
“Vivere è difficile”, dice il suo alter ego, e Confiteor ne fa la propria dichiarazione di poetica: vivere è difficile, ma raccontare è necessario.

Tra Céline, Fellini e Cronenberg

L’incipit, notturno e vertiginoso, sembra scritto da Céline, ma girato da Fellini e montato da Cronenberg. La realtà e l’immaginazione si fondono come Seth Brundle con la mosca in The Fly: da quell’ibrido nasce un cinema mutante, viscerale, poetico.
E qui, tra dissolvenze e deliri, risuona la frase di Gilles Deleuze: “Non c’è cosa peggiore che trovarsi prigionieri del sogno di un altro.”
Angius la rovescia con ferocia e tenerezza: in Confiteor siamo tutti prigionieri del suo sogno, ma è un sogno necessario, una confessione che ci assorbe e ci libera insieme.
Dopo Perfidia, Ovunque proteggimi e I giganti, Angius firma il suo film più intimo e universale: una rivoluzione non politica ma interiore. È la rivoluzione di chi accetta di non essere più giovane, di non poter cambiare il mondo, ma sceglie di cambiare sé stesso, filmando la propria vulnerabilità come un atto di fede.

Approfondimento

CONFITEOR - come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione. VIDEO

Il monologo dell’infanzia perduta

A un certo punto, la voce di Gianmaria — alter ego di Angius — riporta lo spettatore in quella che è la vera origine del film: la memoria familiare, il battito del tempo che non torna più.

“Il mio nome è Gianmaria, e da quando ero bambino, vivevamo tutti insieme. Tutti quanti, cugini, zii, zie, nonno e nonna. Tutti nello stesso palazzo. E facevamo tutto insieme. Facevamo anche la spesa nello stesso negozio.
Zio Gianni viveva nel garage, ed era fidanzato con una Ferrari.
Al primo piano c’erano Zia Anna con Zio Nicola.
Al secondo abitava Zio Raffaele, quello cattivo, tirchio. Zio Raffaele aveva tre figli: Filippo, Luca e Silvietta. E Silvietta mi faceva battere il cuore.
Mio padre è stato in ospedale per quasi un anno ed è cambiato tutto. Non si ricorda più il mio nome. Non ricorda nemmeno come si chiama lui.
Mia madre dice che forse sarebbe stato meglio che morisse. Ma poi, dopo averlo detto, si sente in colpa e si mette a piangere. Io invece non piango mai.
Mamma dice che a nessuno importa più niente di papà. Che papà non è più nulla. Che tutti lo hanno abbandonato, a lui e a noi. E invece se fosse morto, si sarebbero messi tutti a piangere. Perché un morto fa piangere, un vivo no.”

 

È un monologo che da solo basterebbe a definire il tono del film: intimo, crudele, pietoso. Un’infanzia raccontata come un’epopea domestica, un rosario familiare dove ogni “zio” è un ricordo che brucia. Angius filma la sua storia come se la scrivesse su una ferita ancora aperta.

Una commedia amara che diventa dramma e ritorna commedia

Il regista lo dice chiaramente: “una commedia amara che si trasforma costantemente in dramma, poi ritorna commedia e viceversa”. E Confiteor è davvero così: un pendolo di sentimenti, un’altalena emotiva in cui si ride e ci si commuove spesso nella stessa scena. Ma nel cuore del film pulsa un grande amore, quello tra Gianmaria e Miao Miao, la donna amata che lentamente si trasforma in un gatto - e non a caso un felino compare anche nella locandina.
Miao Miao, interpretata da Simonetta Columbu, è la controparte lirica e onirica del protagonista: una creatura che non si lascia possedere, emblema di libertà e desiderio, di attrazione e perdita. È la femme fatale di un universo domestico, la carezza che graffia, il miraggio che salva.
In lei convivono tenerezza e ferocia, dolcezza e ironia: un personaggio che sfugge al realismo per diventare simbolo, sogno, ossessione. Attorno a lei si muovono gli altri corpi e volti: Giuliana De Sio, figura ectoplasmatica e potentissima; Edoardo Pesce, nei panni di zio Raffaele incarna il male maschio di una supremazia tossica; Geppi Cucciari (zia Anna) è una presenza terrena e comica, voce della ragione. Tutti tasselli di un mosaico emotivo che muta costantemente come una marea.

Cinema come confessione, dipendenza, salvezza

Angius mette in scena sé stesso come paziente e dottore, attore e spettatore, carnefice e vittima. Il cinema è la sua droga, la sua terapia, la sua fede.
Come in o All That Jazz, la macchina da presa diventa strumento di autoanalisi e condanna. “Le storie esistono solo nelle storie”, direbbe Wenders, e qui Angius fonde biografia e finzione, verità e menzogna, in un flusso continuo e ipnotico. Alla fine, il film si chiude su un’assenza: il figlio che non risponde al richiamo del padre. È la fine della regia, della paternità, dell’illusione di poter controllare la vita. Ma è anche l’inizio di una nuova libertà: accettare il mistero, abbandonarsi al fluire. Perché come recita il celebre aforisma attribuito a Eraclito: "Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume. Perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo".

Come un bicchiere di filu ’e ferru e un goccio di vermut amaro

Se Confiteor fosse un cocktail, non sarebbe né un Negroni né un Martini. Sarebbe un bicchiere di filu ’e ferru — forte, essenziale, distillato di terra e memoria — con dentro un goccio di vermut amaro, per ricordare che la vita è sempre un equilibrio instabile tra lucidità e vertigine.
Brucia, ma purifica.
È il sapore della Sardegna che Angius porta nelle ossa del suo cinema, quel retrogusto di ferro, sale e vento che sa di notte, di peccato e di perdono.
Perché Angius, come i veri autori, non costruisce film: distilla confessioni, mischia dolore e ironia, rabbia e amore, e poi brinda — solo, o con noi — a ciò che resta.
E mentre sullo schermo scorrono gli ultimi fuochi d’artificio, capisci che Confiteor è un film che brucia e illumina insieme.
Come la vita, come il cinema, come quel bicchiere di filu ’e ferru e vermut amaro bevuto dopo la tempesta, sapendo che il viaggio, in fondo, non è mai finito.

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