Addio a Paolo Bonacelli, l’attore che ha dato volto all’inquietudine e all’ironia
Cinema ©Getty
È morto a Roma, a 88 anni, Paolo Bonacelli, attore che ha attraversato oltre sessant’anni di cinema, teatro e televisione con rigore, inquietudine e ironia. Dal ruolo disturbante in Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini alla forza civile di Cristo si è fermato a Eboli di Rosi, fino ai sorrisi surreali di Non ci resta che piangere e Johnny Stecchino, Bonacelli ha trasformato ogni parte in memoria collettiva, restando fedele al testo e alla verità della scena
C’è una luce che si spegne, eppure resta sospesa sulle pellicole, sui palchi, negli archivi della memoria collettiva. Paolo Bonacelli è morto ieri sera a Roma, all’Ospedale San Filippo Neri, all’età di 88 anni. La notizia l’ha data la moglie Cecilia Zingaro, consegnandoci un addio che non è solo personale, ma riguarda l’intera comunità degli spettatori, cinefili e teatranti. Con lui se ne va un attore che ha attraversato oltre sessant’anni di storia del cinema e del teatro italiani, senza mai smettere di interrogare i testi, i personaggi e se stesso.
Nato a Civita Castellana il 28 febbraio 1937, diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, Bonacelli è stato interprete rigoroso e inquieto, dotato di una presenza scenica che mescolava l’austerità classica e un’ironia capace di accendersi nei momenti più inattesi. A teatro, al cinema, in televisione, il suo nome è legato a una costellazione di autori e registi che hanno segnato epoche diverse: da Pasolini a Rosi, da Antonioni a Troisi, da Cavani a Benigni, fino a Virzì, Argento, Monicelli.
Il teatro come primo amore
Il debutto avviene sulle tavole del palcoscenico, con Questa sera si recita a soggetto diretto da Vittorio Gassman. Subito dopo, l’ingresso al Teatro Stabile di Genova lo consacra tra i volti di una nuova generazione di attori formati all’ombra dei grandi maestri. Con Carlotta Barilli fonda la Compagnia del Porcospino, laboratorio fertile di testi e sperimentazioni.
Bonacelli era un attore che rifuggiva dall’immedesimazione totale: studiava il testo, vi si immergeva come un filologo e poi lo restituiva con precisione chirurgica. “Non c’è nelle mie interpretazioni nulla di strettamente personale”, amava dire. Il suo segreto era forse proprio questo: spogliarsi dell’ego, per servire la parola e il personaggio.
In teatro, le sue prove in Sogno di Oblomov, Terra di nessuno di Harold Pinter, Enrico IV di Shakespeare e Il malato immaginario di Molière hanno lasciato tracce indelebili. Ogni volta Bonacelli sembrava evocare il fantasma stesso del testo, senza sovrapporsi mai ad esso.
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Il cinema dell’inquietudine
Se il palcoscenico è stato la sua casa, il cinema lo ha trasformato in volto universale. Nel 1975 partecipa a Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini: film scandalo, maledizione e insieme rivelazione, che gli vale la Targa Mario Gromo. È lì che Bonacelli diventa icona di una crudeltà lucida, disturbante, e allo stesso tempo strumento di una riflessione politica radicale.
Indimenticabile la scena in cui, nei panni del Duca – incarnazione del potere politico – rifiuta con glaciale freddezza una giovane ragazza perché ha una carie. Un dettaglio crudele, quasi burocratico, che mostra come il male assoluto non abbia bisogno di colpi di scena, ma di piccole e spietate esclusioni. È in questo gesto apparentemente minimo che la sua recitazione diventa simbolo, lasciando impressa un’immagine indelebile nella memoria del cinema.
Con Mauro Bolognini gira L’eredità Ferramonti, con Francesco Rosi Cristo si è fermato a Eboli, con Antonioni Il mistero di Oberwald. Nel 1978 Alan Parker lo sceglie per Fuga di mezzanotte: il ruolo del detenuto Rifki, il turco dagli occhi azzurri, lo proietta in una dimensione internazionale
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Non ci resta che piangere, 40 anni dopo
L’ironia e la leggerezza
Non fu solo interprete di oscurità. Bonacelli aveva anche un senso del comico sottile, che trovava sfogo in ruoli inattesi. In Non ci resta che piangere di Benigni e Troisi è Leonardo da Vinci, figura bizzarra e irresistibile che lo consegna al grande pubblico. Celebre la partita a scopa, in cui Leonardo si ostina a non capire le regole: «Alzo per non imbrogliare», dice con serietà ingenua, scatenando la disperazione di Mario e l’imbarazzo di Saverio. Un frammento che è rimasto nella memoria collettiva come sintesi perfetta del suo talento ironico: solenne e assurdo allo stesso tempo.
Ma è con Johnny Stecchino che Bonacelli regala un’altra scena entrata nella storia della commedia italiana. Nei panni dell’avvocato D’Agata, detto “lo zio”, viene sorpreso da Dante (Roberto Benigni) mentre sniffa cocaina. «Che fai?» chiede Dante. E lui, col volto imperturbabile, ribatte: «Eh… questa non lo sai che cos’è. È… è… è… una medicina! Un medicinale!» – «Un medicinale?» – «Sì.» – «Ma perché sei malato?» – «Eh… purtroppo… è una condanna. La devo prendere tre, quattro volte al giorno. Guai a dimenticarla!». Un capolavoro di ambiguità comica, dove l’attore riesce a trasformare la menzogna in poesia grottesca, rendendo il personaggio indimenticabile.
Con Johnny Stecchino Bonacelli vince Ciak d’Oro e Nastro d’Argento come miglior attore non protagonista: il film dimostra la sua capacità di muoversi tra dramma e leggerezza, lasciando sempre un’impronta memorabile.
Il volto della televisione
Bonacelli non ha mai snobbato la televisione. Ha partecipato a decine di sceneggiati e miniserie, da Ritratto di donna velata a La piovra 7, da I promessi sposi diretti da Nocita a Furore. Negli ultimi anni era apparso anche in Non ci resta che il crimine – La serie e nel docufilm Nato il sei ottobre di Pupi Avati. La sua era una continuità quasi monastica: nessun mezzo era inferiore, purché potesse restituire la parola.
I riconoscimenti e l’ultimo congedo
Il Premio Gassman alla carriera, il Premio Simoni per la Fedeltà al Teatro, il Crocitti International: riconoscimenti che suggellano un percorso di dedizione assoluta.
Il suo ultimo ruolo cinematografico è in In the Hand of Dante di Julian Schnabel, presentato proprio nel 2025 fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia . Un film in cu Bonacelli interpreta un anziano sacerdote di Alcamo. Un'opera che intreccia mito, letteratura e immaginario, quasi un congedo simbolico per un attore che ha sempre attraversato i territori di confine tra parola e visione.
Un addio che resta presenza
Con Paolo Bonacelli non scompare soltanto un interprete. Si chiude un capitolo della cultura italiana, di un cinema capace di essere lirico e crudele, civile e popolare, filosofico e ironico. Bonacelli apparteneva a quella stirpe di attori che non cercano l’applauso, ma la risonanza: che non si esibiscono, ma prestano la loro carne e la loro voce a storie più grandi.
Le sue immagini restano: l’angoscia perturbante di Salò, la dignità dolente di Cristo si è fermato a Eboli, l’ironia inaspettata di Leonardo in Non ci resta che piangere, la maschera grottesca di Johnny Stecchino. Restano i suoi occhi chiari, capaci di farsi tanto minaccia quanto carezza, e quella voce che scivolava dal registro severo al tono leggero con un’eleganza rara.
Un attore proteiforme, curioso, sempre disposto ad accettare nuove sfide: capace di attraversare con classe e perizia il cinepanettone Vacanze di Natale ’95, l’action hollywoodiano Mission: Impossible III dove vestiva i panni di monsignor Vissani, un prelato del Vaticano, il giallo nei panni dello psichiatra che ha in cura Asia Argento in La sindrome di Stendhal, il musicarello Lady Barbara e il cinema d’autore più radicale come Milarepa di Liliana Cavani.
Paolo Bonacelli lascia in eredità non solo film e spettacoli, ma una lezione di sobrietà e profondità: l’arte come servizio, l’attore come strumento del testo, il lavoro come fedeltà a una vocazione. È un addio che suona come presenza. Un applauso lungo, che risuona oltre il buio della sala.