Non ci resta che piangere, 40 anni dopo

Il 21 dicembre del 1984 veniva distribuito per la prima volta “Non ci resta che piangere”, il film di e con Massimo Troisi e Roberto Benigni. Leggendo oggi le recensioni che lo accolsero, è difficile non rimanere perplessi. Il film, in termini di incasso e di successo di pubblico, andò benissimo. Dopotutto, metteva insieme due dei portenti del “nuovo” cinema italiano . Ad alcuni giornalisti, però, sembrò più un esercizio di stile, qualcosa che non valorizzava il talento dei due attori-registi italiani. Con il tempo, e parliamo di pochi anni, “Non ci resta che piangere” è passato velocemente da successo commerciale a intramontabile cult. E ancora oggi, in qualunque contesto e in qualunque situazione, viene ripreso, citato e – bisogna dirlo – imitato. Basta dare un’occhiata alle ultime uscite cinematografiche, dove è evidente il tentativo di mettere insieme il genio napoletano con quello toscano, come se si trattasse di una ricetta facile da replicare. La forza di “Non ci resta che piangere” – che, tra parentesi, Troisi e Benigni avevano scritto con Giuseppe Bertolucci – sta nel suo enorme dinamismo. La storia, sulla carta, è semplicissima. Ci sono due amici, che lavorano insieme e che si conoscono da tempo, che all’improvviso si ritrovano catapultati nel passato, ai tempi dei Medici e di Savonarola. Il contrasto tra la loro sensibilità e la brutalità del periodo in cui finiscono permette la costruzione di momenti estremamente comici . Definirlo classico della comicità italiana – e, più in generale, del nostro cinema – non è assolutamente un’esagerazione. Anzi. “Non ci resta che piangere” anticipava a modo suo i viaggi nel tempo di “Ritorno al futuro” e lo faceva senza cedere al compromesso o cercando di scimmiottare la fantascienza americana. Nelle sue premesse, rimaneva essenziale e immediato: nessuna grande trovata narrativa, nessuna invenzione; nessuna forzatura immaginifica. All’improvviso si passa da un periodo all’altro, punto. Per il resto del film, i due protagonisti devono cercare di ambientarsi, di trovare un nuovo equilibrio e, soprattutto, un modo per tornare al loro tempo. Questi continui tira-e-molla, profondamente radicati in un situazionismo comico voluto e studiato, non sono fastidiosi per il racconto. Al contrario, riescono sempre a rilanciarlo e a renderlo più invitante per lo spettatore. Si passa costantemente da uno sketch, più o meno grande, più o meno verticale, all’altro. Eppure, la scrittura e la regia – che all’epoca non convinse più di un critico – sanno tenere insieme ogni cosa, senza strafare, senza esagerare, senza volere a tutti i costi creare una sospensione dell’incredulità eccessiva e reiterata: accettate le premesse, il resto del racconto è, per così dire, in discesa. “Non ci resta che piangere” rappresenta una sintesi del talento comico di Benigni e Troisi: se il primo si ritrova quasi costretto a subire l’eccentricità del secondo, il secondo trova nel primo un sostegno, più che una spalla, costante. E in questo bilanciamento reciproco, sia Benigni che Troisi possono dare il meglio di sé stessi. In “Non ci resta che piangere”, il gioco delle parti è fondamentale per la messa in scena: i due protagonisti sono amici ma pure, in alcune situazioni, rivali . I luoghi comuni e i cliché vengono usati e smascherati, e poi ribaltati, estremizzati e sfruttati come pretesto e come punto di partenza comico. L’apparente semplicità dei due protagonisti, che ricordano la storia a tratti e che solo a un certo punto si rendono conto di avere a loro disposizione un potere non indifferente , è l’ingrediente fondamentale di tutto il film. Se si prendessero troppo sul serio o se fossero anche minimamente convinti di poter avere successo, si passerebbe rapidamente da commedia a farsa e da farsa a parodia di genere. “Non ci resta che piangere” è una lezione di scrittura e di comicità, e soprattutto è una lezione di consapevolezza: Troisi e Benigni sanno esattamente cosa fare e come farlo; non hanno fretta, non rincorrono le risate del pubblico. Sono genuinamente sé stessi, e parte del loro talento risiede proprio in questo: nel conoscersi così a fondo. La risposta più o meno mista della critica e il consenso ampissimo del pubblico, che incoronò “Non ci resta che piangere” come miglior incasso della stagione 1984-1985, sono uno specchio dei tempi. L’avanguardismo per nulla ricercato di Troisi e Benigni, per qualcuno troppo semplicistico e addirittura banale, trovò il modo di rispettare la tradizione della commedia italiana e, allo stesso tempo, di intraprendere un nuovo corso.

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