At Work (À pied d’œuvre), recensione del film di Valérie Donzelli in concorso a Venezia
CinemaIn concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2025, l'opera porta sullo schermo il romanzo autobiografico di Franck Courtès. Bastien Bouillon interpreta Paul, fotografo che abbandona il successo per inseguire il sogno di diventare scrittore, affrontando precarietà, solitudine e il mondo dell’algoritmo che regola il lavoro. Con Virginie Ledoyen e André Marcon nel cast, il film riflette sul prezzo della libertà artistica, sulla dignità di chi sceglie di vivere ai margini e sulla poesia nascosta nella fragilità
L’imperativo di cominciare da capo
La prima battuta di At Work è un imperativo: “Spazzate!” Un muro crolla, il pavimento è un’epifania di calcinacci e polvere. Non solo un’immagine concreta, ma un simbolo: cancellare ciò che il mondo ci impone per provare a diventare se stessi. Valérie Donzelli da qui costruisce un film che non addolcisce nulla: i sogni, ricorda Ornella Vanoni, “costano più dei motori, dei gioielli e delle lacrime”.
Un eroe ostinato
Paul lascia tutto non per aprire un corrivo chiringuito, ma per inseguire la vocazione più fragile: diventare scrittore. Anche chi non conosce l’editoria sa quanto sia ostico vivere di romanzi. Eppure lui osa: si iscrive a una piattaforma, diventa un jobber del nostro tempo, accettando lavori da giardiniere, traslocatore o idraulico, per pochi euro. Vuole un lavoro che non lo occupi tutto il giorno, perché ciò che conta è il tempo per scrivere. Così sfiora la soglia della povertà, in una vita che è “come le cinque della sera”: buia, ma non ancora crepuscolare.
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La fragilità della paternità
Paul è anche un padre divorziato. Nel giorno del compleanno della figlia, rinuncia a vederla: la videochiamata sostituisce l’abbraccio. La madre regala alla ragazza un paio di adidas Gazelle rosse, da collezione; lui una vecchia fotografia insieme, quando lei era bambina. La figlia non cela la delusione. Per un padre che guadagnava tremila, talvolta ottomila euro per uno scatto, e ora sgombera cantine per venti, è una ferita che brucia. In quella voce fuori campo che accompagna la scena vibra l’eco del cinema di Truffaut: intima, dolente, sincera.
Bastien Bouillon, volto vulnerabile
Bastien Bouillon regala al personaggio un’aura ascetica: è fragile, ma tenace, un uomo che non misura la propria vita in denaro. Attorno a lui, Virginie Ledoyen e la stessa Donzelli amplificano la tensione affettiva di un racconto che interroga i ruoli, il successo, il fallimento. La miseria di Paul non è solo privazione, ma danza con la libertà: un gesto che destabilizza perché sottrae un uomo alle regole del profitto.
Precarietà, algoritmo e resistenza
Oltre alla storia individuale di Paul, At Work diventa una critica collettiva. Donzelli mostra senza retorica l’“uberizzazione” del lavoro, la logica degli algoritmi che regolano domanda e offerta, abbassano i compensi, annullano le tutele e rendono invisibili milioni di lavoratori. Nella sola Francia sono oltre 11 milioni le persone che vivono sotto la soglia di povertà: il film dà loro un volto simbolico, trasformando la condizione precaria in atto politico e poetico.
La colonna sonora come memoria
A illuminare il percorso di Paul arrivano tre canzoni: Joe le Taxi di Vanessa Paradis, Le Vieux Couple di Serge Reggiani e Foule Sentimentale di Alain Souchon. Sono brani che diventano memoria, lampi di emozione, aperture improvvise nel buio. La colonna sonora di Jean-Michel Bernard, costruita su una melodia minima e ossessiva, accompagna la storia come un pensiero ricorrente, fragile e persistente. È il battito nascosto di un film che riflette sul rischio dell’arte e sulla bellezza del non adattarsi.
Un film necessario
Alla Mostra di Venezia 2025, At Work emerge come uno dei ritratti più intensi sulla condizione dell’artista contemporaneo. Non un genio maledetto, ma un uomo vulnerabile che lotta per difendere la libertà di creare. È cinema che non consola, ma restituisce dignità alla precarietà, trasformando la solitudine in resistenza.