Antropophagus – Le origini: recensione del film horror prequel-sequel di Dario Germani

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Il cult horror Antropophagus, diretto da Joe D’Amato nel 1980, rivive con Le origini, prequel-sequel firmato da Dario Germani e ora in sala. Un viaggio tra sangue, genealogia e incubi familiari, che omaggia il mito di Aristide Massaccesi e ne reinterpreta la ferocia. Il Male scorre nella carne e nel tempo, in un horror viscerale dove il cuore rivelatore batte ancora, e il mostro – forse – ha il nostro stesso volto. Famiglia, fame e memoria: la cena è servita

C’è un sangue che non si lava via. Resta sotto le unghie, nei corridoi della memoria, nei sogni disturbati da luci al neon e bambini che non tornano mai.
Quel sangue ha un nome antico: Antropophagus. Un film del 1980 diretto da Joe D’Amato, diventato leggenda VHS tra adolescenti pallidi e ossessioni proibite.
Ora, nel 2025, quel mito ritorna. Ma non come remake, non come feticcio: come eredità. Come linfa che scorre ancora, clandestina e contaminata, tra le vene del cinema di genere italiano.

 

LA Trama di Antropophagus – Le origini: sangue, famiglia e memoria

Antropophagus – Le origini, diretto da Dario Germani e prodotto da Flat Parioli, è attualmente in sala, dopo essere stato finalista allo Screamfest Horror Film Festival di Los Angeles, uno dei principali festival horror del mondo.
È un horror italiano che affonda nelle radici del mito, ma lo riscrive in chiave contemporanea. Un prequel e sequel allo stesso tempo, che scava nella carne e nel tempo, nella memoria e nel corpo. Una storia di famiglia, violenza, trasmissione e fame. Fame vera. Fame antica.

La protagonista è Hanna (una intensa Valentina Corti), donna incinta e smarrita, che fugge in Ungheria dopo essere sospettata dell’omicidio del compagno.
Cerca rifugio dal cugino Hugo (Salvatore Li Causi), ma a volte, quando cerchi riparo, trovi la tana del male.
E così il passato, custodito nei muri e nei nomi, riemerge.
La genealogia cannibale dei Wortmann – Klaus, Hugo, Hanna – si svela in una spirale di sangue, carne e destini incatenati.

 

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Dario Germani tra Antropophagus II e Le origini: dichiarazione d’estetica e d’intenti

Germani, che già nel 2022 aveva firmato Antropophagus II, dichiara:

“Mi era già stato chiesto di dare un seguito ad Antropophagus, ma sentivo il bisogno di tornare all’origine, legandomi in uno stretto nodo con il film del 1980. Ho voluto raccontare il ‘mostro’ nella normalità, il vicino di casa schivo ma educato, e la mostruosità del legame di sangue.”

L’orrore, dunque, non ha zanne né artigli: ha occhi quieti, educazione, e un albero genealogico.
Anche i cannibali hanno iniziato da piccoli, ci ricorda il film. Hanno cominciato per necessità. Poi hanno scoperto che il corpo dell’altro è ricordo, nutrimento, consolazione.
I flashback ci portano a   Budapest  tra il 1948  e il 1965 , tra fame e disperazione. Qui nasce il culto del nutrirsi: non come follia, ma come risposta concreta alla fame, alla guerra, alla solitudine.

Il formato 1:66, identico a quello dell’originale, non è solo un omaggio visivo: è una dichiarazione di poetica.

“Non si sviluppa troppo in orizzontale – spiega Germani – mantiene la verticalità a cui oggi siamo abituati. Tutto è più centrato e immediato, non permette la deconcentrazione.”

La scelta estetica diventa struttura mentale. La regia incastra, chiude, isola.
La fotografia, firmata dallo stesso Germani, è secca, geometrica, ipnotica.
Gli effetti speciali di David Bracci restituiscono un gore carnale, concreto, mai decorativo. Il sangue è sangue. La carne è carne. La ferita è reale.

 

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Nel Ministero dell’Inferno: liturgie visive, suoni sacrificali e cocktail da bere al buio

Tra catacombeclub sotterranei chiamati AlterEgocanti gregoriani rielaborati e ottetti elettronici, si palesa un Ministero dell’Inferno perpetuo: un luogo dove la famiglia si trasforma in altare e la cena diventa rito sacrificale.
La colonna sonora firmata da Cezame dialoga perfettamente con le scenografie claustrofobiche di Antonio Di Giovanni e i costumi rituali di Antonella Balsamo.

Il male apparecchia la tavola.
E stavolta, il diavolo fa le pentole e pure i coperchi.
Signore e signori, il pranzo – e financo il delirio – è servito.

È in quel momento che si può accompagnare la visione con un Red Heir, un cocktail d’autore pensato per questo film: vermouth rosso, mezcal affumicato, barbabietola e aceto balsamico.
Un brindisi alla genealogia.
Un sorso alla memoria.
Non disseta: risveglia. È un bicchiere da bere al buio, con la televisione accesa e le pareti che sudano.

E quando Hanna capisce, non fugge: guarda.
Si specchia. Si trasforma.

 

Il cuore rivelatore: bellezza, sangue e confessione

“Antropophagus: Le origini – dice il regista – parla di una famiglia legata nonostante l’oscurità che la accompagna, un legame di sangue indissolubile che scavalca l’etica e si proclama superiore.”

Perché, in fondo, cos’altro può essere la bellezza interiore se non qualcosa di spaventoso e irresistibile? Una vibrazione organica. Un tremore viscerale.
Il film si apre – e si chiude – su un cuore rivelatore: non un simbolo, ma carne che batte, pulsa, denuncia.

Come ci ha insegnato Edgar Allan Poe, è nella stanza silenziosa che il colpevole si tradisce.
Il muscolo cardiaco messo a nudo diventa tamburo del destino, confessione viscerale, crimine che si rivela da solo.
E Germani affonda la lama proprio lì:
nel centro, nella sorgente, dove il sangue non mente mai.

Il finale non chiude: morde. Lascia un battito sotto i titoli di coda.
Un eco oscuro, carnale, che si prolunga anche dopo la visione.
Un sussurro. Un richiamo.

“Credo di aver messo in scena tutte le mie idee e rappresentato le mie paure”, confessa Germani.
E lo spettatore, uscendo dalla sala, sa di aver fatto un viaggio non solo nel mito, ma nella carne di ciò che ereditiamo.

Alla luce di una candela si spegne il sole. Trionfa il mondo ctonio. Tenebra über alles.

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