Dollhouse di Francesco Foletto: IA, distopia e spot tossici in 12 minuti di verità liquida
Cinema“Dollhouse”, corto distopico e visionario di Francesco Foletto, è un’opera feroce, satirica e perturbante. Tra glitch, intelligenza artificiale e bambole ipersessualizzate che leggono il telegiornale, racconta un futuro grottesco dove il pensiero critico è un errore di sistema. Tra live-action, animazione e provocazione visiva, la ribellione si confonde con lo spettacolo. Una bomba a orologeria degna di Arancia Meccanica. La disinformazione è servita. La resistenza? Una macabra danza cyberpunk con casquè
Scusateci.
Se in 12 minuti vi spacchiamo le pupille, il cuore e la timeline.
Scusate se vi illudiamo di star guardando un corto, mentre in realtà siete voi a essere spiati, sezionati, venduti a pacchetti. Scusate se le notizie, in Dollhouse, sembrano pubblicità di profumi per cyborg: le due callipigie conduttrici si perdono in bollenti effusioni da spot di “Obscure”, ma la voce fuori campo ci rassicura — o ci minaccia — che “hanno la stessa essenza della materia che compone l’universo”.
Scusate anche se vi invitiamo a correre al lavoro prima che gli alieni ve lo rubino.
E la mente, inevitabilmente, rievoca l’eco sinistra di "Arbeit macht frei."
Benvenuti a Neo-Berlino
Una metropoli immaginifica e disperata dove le breaking news sono litanie tossiche, le conduttrici sembrano Barbie potenziate dall’algoritmo di un Dio ubriaco, e la verità si è dissolta tra le pagine pubblicitarie del sacro e del social. Ma più che un luogo, Dollhouse è un cortocircuito: un’esplosione estetica, teorica e politica, orchestrata da Francesco Foletto con la crudeltà lucidissima di un ventriloquo impazzito.
«In un mondo in cui l’individualità è mercificata e la libertà venduta a pacchetti, la realtà si confonde con e illusioni pubblicitarie», recita il presskit. Ma qui non si confonde: si sbriciola.
Approfondimento
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Una crepa nel codice
Siamo nell'anno di (ds)grazia 2048. iUn telegiornale — o meglio, un delirio mediatico — ci accoglie come una sirena di guerra vestita da influencer. Elisa Carrera Fumagalli e Noemi Nappi, brillanti e disturbanti, recitano la fine del mondo con l’eleganza di due amazzoni in latex, uscite da una tavola di Eric Stanton, che hanno studiato Pasolini e binge-watchato Black Mirror. Le loro voci sono seducenti, artificiali, programmate. Ma qualcosa — un frammento d’umanità, una crepa — si insinua nel codice. E allora la bambola s’incrina.
La casa delle bambole, infatti, esplode. Come nel gioco preferito della nostra infanzia, Dollhouse ci invita a disporre i personaggi sul set e poi… distruggere tutto. I pixel, le identità, le fake news. La ribellione è in diretta. Ma è reale o solo l’ennesimo spettacolo orchestrato da BeeFree, la megacorporazione che controlla anime e Wi-Fi?
BeeFree: la rivolta in saldo
E se BeeFree promuove la ribellione, non sarà forse la rivolta stessa un gadget biodegradabile? Un oggetto di plastica lucida, confezionato ad arte per farci sentire alternativi?
Un’altra illusione da e-commerce della dissidenza, con consegna gratuita e reso impossibile.
In questo corto, il sound design firmato da +48Soundworks taglia come una sega chirurgica, mentre l’uso dell’IA (Runway, MidJourney) non è feticismo nerd, ma un vero e proprio linguaggio visivo. Un’estetica algoritmica, pulsante, che trasforma ogni frame in una provocazione sensoriale.
La regia è feroce, coreografata come un balletto di bambole assassine; il montaggio, curato dallo stesso Foletto, alterna accelerazioni pop a momenti di vertigine sospesa. La fotografia di Michele Lauri ci proietta in un mondo a metà tra Blade Runner e Unreal Engine, dove tutto brilla… ma di una luce falsa.
La playlist dell’Apocalisse
Foletto — che con Restare Umani aveva già scardinato i generi — qui compone un poema disturbato e disturbante. Un’opera attraversata da un tappeto sonoro che centrifuga Duce Williams, Mozart, Ty Simon, Just for Kicks, Tchaikovsky, Randy Sharp, Rossini e Bach, in una playlist da panico post-umanista.
È uno dei pochi giovani registi italiani capaci di orchestrare la musica come vero controcanto narrativo, senza mai usarla come cerotto per coprire i vuoti di sceneggiatura.
Qui ogni nota è un proiettile, ogni passaggio musicale un glitch emotivo. E anche la colonna sonora diventa arma.
Produci, consuma, casqué
In questo mondo ipersaturo, tutti sono alla disperata ricerca di credit, schiavi della performance, prigionieri di un algoritmo che insegna perfino come amare.
Il “Produci, consuma, crepa” dei CCCP potrebbe mutare nel più desolante “Produci e consuma”. Perché magari nel futuro — che non è più quello di una volta — la morte è opzionale, l’immortalità artificiale si acquista in saldo, e i regali di Natale si comprano ad agosto nei centri commerciali.
Altro che “Quando il Natale arriva, arriva”, come diceva Pozzetto: ora è Natale tutto l’anno.
E il marketing è il vero messia.
E allora una bambola ride.
Ride forte.
Perché ha capito che non c’è più nulla da salvare.
E in un lampo di abbagliante lucidità, la domanda si fa spazio tra i resti del caos:
“Ma perché dobbiamo ottimizzare sempre tutto?”
Forse ci sono emozioni che vanno solo vissute, senza filtri, senza like, senza obiettivi.
Ricette che non prepareremo. Case che non compreremo. Corpi che non avremo.
E forse anche la libertà — oggi — è un plug-in che si scarica in background.
Ultima visione prima del glitch
E Dollhouse si chiude.
Ma non si spegne.
Resta in loop, dietro le palpebre, come un sogno caricato male.
Un mantra in surround che centrifuga glitch, Bach e pubblicità tossiche.
Perché non era un corto: era un portale.
Non era finzione: era una domanda.
Sei ancora reale?
Cosa ti resta, se togli tutto il resto?
Una carezza in streaming.
Un algoritmo che finge di amarti.
Una connessione instabile nel cuore della notte.
Un plug-in per scaricare la libertà. In beta.
E mentre Dan Pundak canta “I want you want me forever and always”,
noi restiamo qui: a scrollare, a negare, a consumare.
La rivolta è uno sticker. La morte è opzionale.
E perfino la nostalgia è ottimizzata per i reel.
La bambola ci osserva
Ci fissa chi ha già visto tutto.
Ma forse, a forza di guardare questo vuoto,
qualcosa dentro di noi
— finalmente —
si rompe.
E da quella crepa,
passa la luce.
O l’ultima fake news.