Incel in una stanza, un libro racconta il cinema dei maschi brutti, soli e cattivi
CinemaNel saggio pubblicato da Shatter Edizioni, il micro-collettivo Dikotomiko analizza come il cinema e una parte della serialità contemporanea abbiano raccontato il fenomeno degli "INvoluntary CELibate" e una certa maschilità tossica e patologica: da Taxi Driver a Saltburn, passando per Don't Worry Darling e la serie tv Adolescence, un viaggio tra solitudine, rancore e immaginario filmico
In principio era il vapore. Quella nebbia bianca che sale dai tombini di New York e avvolge Taxi Driver (1976), capolavoro di Martin Scorsese. È lì che nasce Travis Bickle, profeta armato del disagio urbano, "proto-incel ante litteram" — come lo definisce il collettivo Dikotomiko — che confonde redenzione e violenza. Squarcia la nebbia con una pistola, come il maschio contemporaneo confuso tra desiderio e rancore.
È da quella figura archetipica che parte Incel in una stanza, saggio tagliente quanto la katana forgiata da Hattori Hanzo in Kill Bill. Pubblicato da Shatter edizioni e firmato da Massimiliano Martiadonna e Mirco Moretti (alias Dikotomiko), Il libro scava nei recessi più oscuri dell’immaginario maschile, tra le stanze virtuali di Reddit e 4Chan, popolate da uomini soli, frustrati, rabbiosi: i “celibi involontari”, meglio noti come incel.
Niente sconti, semplificazioni o moralismi. Solo un’identità maschile in crisi, che si rifugia in mondi alternativi – digitali o cinematografici – per cercare risposte, vendette, rivalse. E spesso trova solo un nichilismo feroce, spacciato per senso di potere.
Una guida per riconoscere gli Incel
Incel in una stanza non è solo una rassegna di personaggi tossici: è una discesa negli abissi del desiderio frustrato, dell’identità maschile corrosa dal rifiuto, dalla solitudine e dal narcisismo. Il cinema diventa lente d’ingrandimento di un malessere collettivo, ma anche specchio deformante e confessionale. Duecento pagine che si leggono come un viaggio all’inferno, tra finzione e realtà, dove l’inquietudine maschile prende forma, volto e voce.
Il rischio di perdersi nella galassia incel — come il Major Tom di Space Oddity cantato da David Bowie — è alto quanto il gigantesco Gargantua. Eppure, il saggio firmato Dikotomiko offre una bussola. Un glossario dettagliato, essenziale, che decifra un lessico spesso volutamente criptico: dalla regola dell’80/20 al Chadfishing, fino al Jihadmaxxing, ogni termine viene spiegato con chiarezza, senza indulgere nel sensazionalismo.
Particolarmente efficace è l’analisi delle teorie che circolano all’interno delle community incel, come la famigerata LMS (Look, Money, Status), secondo cui il successo nelle relazioni dipende unicamente da bellezza, ricchezza e prestigio sociale. Una visione riduttiva e tossica che il libro mette a confronto con personaggi cinematografici tragici, schiacciati da questi stessi standard. Figure incapaci di vivere — o sopravvivere — fuori da una gabbia di aspettative irrealistiche.
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Joker: Arthur Fleck non è un incel
Il viaggio critico di Incel in una stanza parte da Polytechnique (2009) di Denis Villeneuve, racconto asciutto e potente della strage di Montréal del 1989. In quell’occasione, il venticinquenne Marc Lépine dichiarò di voler "uccidere le femministe", dando voce a un risentimento identitario e sessuale che avrebbe trovato nel tempo nuove forme espressive. Villeneuve non spettacolarizza la violenza: la osserva, la decostruisce, la espone nella sua brutalità ideologica.
Altro caso emblematico è Manodrome (2023), in cui Jesse Eisenberg interpreta un uomo ordinario che, per sentirsi potente, si rifugia in una setta. Dikotomiko lo inserisce tra le “palestre ideologiche della mascolinità tossica”, spazi in cui ogni fragilità viene percepita come un errore da correggere. Il film diventa così una metafora efficace delle derive maschili contemporanee, alimentate anche da figure come Jordan Peterson, psicologo diventato punto di riferimento – e prodotto mediatico – della crisi dell’identità maschile.
Il saggio offre poi una lettura puntuale e necessaria del caso Joker (2019) di Todd Phillips, spesso equivocato dalla community incel. Come sottolineano gli autori, Arthur Fleck non è un incel: è una figura segnata dalla solitudine, dal disagio psichico, dagli abusi subiti. Le sue prime vittime, nel film, sono tre uomini che molestano una donna in metropolitana – non donne. Attribuirgli uno spirito vendicativo misogino significa ignorare la complessità del personaggio e piegarlo a una narrazione ideologica distorta.
A ribadire questa distanza è anche Joker: Folie à Deux, sequel troppo in fretta liquidato da parte della critica. Per chi scrive, si tratta di un’opera sottovalutata, che dimostra quanto il personaggio sia distante tanto da qualunque militanza, quanto dalle retoriche dell’Alt-Right. Arthur Fleck non incarna un movimento: è il riflesso tragico e ambiguo di un malessere individuale, non un manifesto collettivo.
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Da Uss Callister a The Beast
Nel saggio Incel in una stanza, non manca l’analisi dell’episodio USS Callister di Black Mirror, dove la fantascienza diventa il palcoscenico perfetto per la vendetta nerd di un programmatore frustrato. Qui, la narrazione sci-fi smaschera con precisione chirurgica l’autoillusione di onnipotenza di certi soggetti marginalizzati, incapaci di affrontare le proprie paure, le proprie nevrosi, i propri traumi
In Don't Worry Darling, Olivia Wilde immagina una distopia patinata anni ’50, dove l’autonomia femminile viene repressa in una realtà simulata costruita da uomini insicuri. I protagonisti maschili non sono mostri da incubo, ma nostalgici del controllo emotivo, spettri di un passato che rifiuta di morire. Una critica sottile, ma feroce, a un certo immaginario reazionario ancora vivo nel presente.
Chiude il trittico La Bête (The Beast, 2023) di Bertrand Bonello, dove George MacKay interpreta un uomo incapace di vivere nel presente, intrappolato tra memorie sintetiche e simulazioni affettive. Un individuo algoritmico, congelato tra desiderio e paura, ispirato dichiaratamente a Elliot Rodger – il ventiduenne che nel 2014 uccise sei persone nei pressi dell’Università della California a Santa Barbara prima di togliersi la vita. Il film di Bonello non cerca il sensazionalismo, ma tratteggia con inquietante lucidità il volto di una maschilità smarrita nell’era del digitale.
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Un libro che mette a disagio (e fa bene)
Da Scott Pilgrim a Saltburn, passando per Cuck (diretto da Rob Lambert nel 2019 e ancora inedito in Italia), Incel in una stanza è un saggio provocatorio e necessario. Un’esplorazione lucida e tagliente di un fenomeno culturale tanto diffuso quanto rimosso: la maschilità tossica riflessa – e spesso distorta – dallo specchio del cinema.
Come scrive il collettivo Dikotomiko:
“L’incel non nasce nei sottoscala, ma nei riflessi opachi dello specchio cinematografico. Gli abbiamo dato bellezza, musica, monologhi. Era solo questione di tempo prima che chiedesse anche il palcoscenico.”
Un libro scomodo, perturbante, ma indispensabile. Un saggio che scuote e, proprio per questo, fa bene alla salute collettiva. Perché comprendere – davvero – è il primo passo per non sottovalutare. E per guardare in faccia ciò che troppo spesso preferiamo ignorare