Paternal Leave, il primo lungometraggio di Alissa Jung è una storia intima e matura

Il 15 maggio al cinema è arrivato “Paternal Leave”, il primo lungometraggio diretto da Alissa Jung. Racconta una storia intima, narrativamente contenuta, in cui i due protagonisti sono un padre e la figlia che non ha mai conosciuto. Paolo e Leo – si chiamano così – sono interpretati meravigliosamente da Luca Marinelli e Juli Grabenhenrich, alla sua prima esperienza come attrice. Buona parte della storia si affida a loro, alle loro interazioni, al modo in cui stanno insieme in scena e si dividono le battute, le pause e le occhiate. Marinelli e Grabenhenrich si somigliano, e non solo fisicamente. Si somigliano perché imparano piuttosto velocemente a rivedersi l’uno nell’altra, a imitarsi senza imitarsi, a prendere gli stessi respiri, a chiudere con la stessa forza le palpebre e a ad aspettare. Ecco, “Paternal Leave”, benché ambientato in poco più di tre giorni, è pieno di attese. E di sospensioni. E, ovviamente, di silenzi. Che non rallentano la narrazione ma che, al contrario, riescono a darle un altro passo e un’altra consistenza. Noi, gli spettatori, ci troviamo in una posizione privilegiata: possiamo osservare da vicino il rapporto che unisce due esseri umani. E Alissa Jung sa esattamente dove guardare, dove soffermare l’attenzione della camera, e in che modo accompagnarci al centro della storia. La riviera romagnola, con le sue spiagge desolate, le sue onde altissime e con la vita che, lontano dall’estate, procede a rilento, riflette con precisione quello che è lo stato d’animo dei due protagonisti all’inizio del film: sono confusi, incerti, persi nei loro pensieri. Quando c’è il primo contatto tra Paolo e Leo, lo spazio del racconto sembra allargarsi, assumere una consistenza diversa, più densa, quasi avvolgente. Guardiamo lui, guardiamo lei. E aspettiamo . E quando parlano – lei in tedesco, lui in italiano; alla fine concordano per l’inglese – vengono fuori frasi brevi, puntute, divise quasi equamente tra attacco e difesa . Prima ancora di questo momento, ce n’è un altro, altrettanto importante. Ed è quello in cui Leo decide di partire, di fare i conti con il padre che l’ha abbandonata. La madre sarà fuori per lavoro; le dice di mangiare, di tornare a casa presto, di non fare tardi. Lei mente: andrò da un’amica, ci vediamo domenica sera a cena. E invece va alla stazione dei treni e parte. Tutto quello che ha, per orientarsi, è un video in cui Paolo parla della sua esperienza come istruttore di surf per ragazzi. Nient’altro. E quindi non sa. E non sapendo, comincia a immaginare l’attimo in cui vedrà suo padre. Addirittura, e lo scopriamo nella scena di cui parlavamo prima, si prepara delle domande, vuole intervistarlo. Proprio perché, all’inizio, il suo obiettivo principale è capire. La ragione, però, cede rapidamente il posto all’irrazionale, ai sentimenti, all’insicurezza. Le domande si inseguono, si accavallano, si somigliano. Leo perde il filo. Chiude il quaderno, smette di registrare. E Paolo la guarda. L’adulto è lui. In teoria, dovrebbe sapere cosa fare, come gestirla. E invece no. Perché pure lui, quasi inconsapevolmente, ha finito per immaginare il loro incontro. “Paternal Leave”, distribuito da Vision Distribution, è prima di tutto un film su due persone: su un uomo, che non è mai cresciuto, e su una ragazza che è cresciuta troppo rapidamente. E poi è un film sui rapporti, sulle piccole cose, sui gesti: abbracci, sguardi, sorrisi. Ed è un film che coglie pienamente il senso e la profondità di ciò che significa essere adulti e, parallelamente, di ciò che significa essere genitori e figli. Alissa Jung dimostra una maturità incredibile. Conosce i suoi tempi, conosce la sua storia, e riesce – cosa difficilissima per chi è al suo esordio – a non avere fretta, a non intestardirsi. Ed è bello, “Paternal Leave”. Bello per Luca Marinelli e Juli Grabenhenrich, per Rimini, per queste atmosfere costantemente sospese, quasi nebbiose, piene di pensieri e di dubbi. Bello perché, a volte, i film migliori non sono quelli che prendono la rincorsa e dicono tutto quello che hanno da dire con forza, urlando. A volte, i film migliori sono quelli che parlano piano, sottovoce, e che si accontentano di uno scorcio di un’espressione. Tra Paolo e Leo, ci siamo noi, gli spettatori. E ci sono le nostre domande e le nostre considerazioni. Siamo invitati a partecipare attivamente e non solo a osservare.

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