Sundance 2024, oltre i premi: i documentari dal mondo
CinemaUn approfondimento sui titoli piu interessanti della categoria World Documentary, , proiettati alla 40.ma edizione del Sundance Film Festival
L'anno scorso l'Oscar al miglior documentario è andato a un'opera presentata al Sundance ("Navalny", categoria World Documentary). Lo stesso è accaduto due anni fa ("Summer of Soul", categoria US Documentary). Non c'è due senza tre, dicono, e chissà allora se il prossimo 10 marzo a incassare la statuetta più pregiata sarà un'altro sundancer ("20 days in Mariupol" e "The eternal memory" i due titoli in lizza nella cinquina finale). Questo per dire che è qui, nelle opere documentaristiche, che sempre di più si concentra la forza del Sundance Film Festival, che quest'anno ha festeggiato la sua 40^ edizione. Ed è qui allora che - a bocce ferme - scegliamo di tornare per presentare alcuni dei documentari più interessanti visti a Park City. Tralasciando chi ha vinto i premi principali (quelli della giuria: "Porcelain war" per i documentari USA, il norvegese "A new kind of wilderness" per quelli dal resto del mondo) per spostare l'attenzione su altri titoli meritevoli - per motivi diversi - di un approfondimento.
Tre (+1) titoli dalla categoria World Documentary
Ibelin
L'ultimo post del blog "Musing of life" è datato 19 novembre 2014 e legge: "Il nostro amato figlio, fratello e miglior amico ci ha lasciato stanotte". Alle 23.45 del giorno precedente, infatti, all'età di 25 anni, 4 mesi e 15 giorni, Mats Steen era morto come conseguenza della malattia che aveva segnato tutta la sua vita, la distrofia muscolare di Duchenne. Aveva però lasciato una sorta di testamento online nelle pagine del suo blog, attivo dal luglio al dicembre del 2013, fino a quando cioè aggiornarlo non era diventato troppo faticoso e l'unica distrazione rimastagli era giocare per ore e ore a War of Warcraft. Del blog papà Robert e mamma Trude quasi ne ignoravano l'esistenza, prima di ricevere la password d'accesso da parte del figlio a pochi giorni dalla sua scomparsa. Sono loro che decidono di pubblicare l'ultimo post, nel novembre 2014, per dare una sorta di commiato finale a chiunque avesse mai letto quelle parole scritte online dal figlio. Quello che non si aspettano, però, è ciò che accade dopo: all'indirizzo e-mail familiare che lasciano in calce al post iniziano ad arrivare decine, poi centinaia di messaggi. E non finisce qui: il regista Benjamin Ree (suo "La pittrice e il ladro") e Rasmus Tukia (responsabile per le animazioni 3D) ricostruiscono magistralmente sullo schermo gli ambienti del famoso videogioco World of Warcraft, un universo virtuale e alternativo dove Mats - negategli le esperienze comuni a ogni adolescente - si è creato un'altra vita, con il nickname di "Ibelin". Sono 42.000, infatti, le pagine di dialoghi online tra Ibelin e i suoi compagni di gioco, archiviate in memoria e recuperate dal regista, pagine che ricostruiscono una vita piena di affetti, amicizie e anche amori (tutti virtuali) invisibili a chiunque, perfino ai genitori stesso del ragazzo.
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Sundance 2024, oltre i premi: i documentari Made in USA
Never look away
Chi si ricorda Xena, la principessa guerriera, ed è rimasto marchiato a fuoco dalla donna che la interpretava, Lucy Lawless, non farà fatica a capire perché - per il suo esordio alle regia - la neozelandese abbia scelto di raccontare la storia di un'altra donna sua connazionale, Margaret Moth. Camera(wo)man di CNN, "la telecamera in spalla come fosse un bazooka" (dicono i colleghi), affamata di vita tanto da sfidare ogni giorno la morte, Moth chiede di essere in prima linea in tutte le zone di guerra più pericolose al mondo ("Non si può coprire la guerra da lontano: la guerra è fatta dalle persone"). Eccola allora in Ruanda come in Kuwait (a fumare sigari in compagnia del generale Schwarzkopf), in Libano come in Georgia, nel West Bank come nei Balcani. Ed è proprio sullo Sniper Alley di Sarajevo, il viale dei cecchini, che Moth viene colpita al volto da un proiettile che le distrugge metà mascella e parte della lingua, facendole perdere tutti i denti. Neppure questo (e mille operazioni) riesce a fermarla, tanto che dopo 18 mesi convince CNN a rimandarla al fronte. Ad arrestare l'insaziabile voglia di documentare ogni atrocità, nel tentativo di risvegliare le coscienze, solo un tumore al colon, che mette fine alla sua vita a 59 anni.
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In the Summers e un documentario sull'Ucraina vincono al Sundance
Soundtrack to a coup d'état
Quando la "cold war" per un momento divenne la "cool war". È il 1960, l'anno in cui Nikita Kruscev picchia la scarpa sul tavolo dell'Assemblea Generale dell'ONU e Louis Armstrong - la tromba più famosa del jazz - viene spedito come ambasciatore in Congo, per depistare l'attenzione dal colpo di stato orchestrato dallo stesso governo USA. Quattro anni dopo, è il 1964, Dizzie Gillespie decide di correre da indipendente per la Casa Bianca, promettendo la trasformazione della White House in "Blues House" in caso di vittoria. Muovendosi al ritmo sincopato di una spettacolare colonna sonora, in "Soundtrack to a coup d'état" il jazz si fonde con la cultura pop, la politica e la storia, in un unico corpo vibrante che ha l'ambizioso intento di ritrarre un'epoca davvero speciale, segnata dalle rivendicazioni dei Paesi africani appena decolonizzati (16 di loro appena entrati a far parte delle Nazioni Unite) e dalla violenta reazione all'idea di un nuovo ordine mondiale che minacciasse lo status quo (di cui l'uccisione del primo ministro congolose Patrice Lumumba è solo la tragica punta dell'iceberg). Da vedere e da ascoltare.
Agent of happiness
Il Bhutan, si sa, è il Paese che dagli anni '90, per volontà del suo re, misura la Felicità Interna Lorda (FIL), e non solo il PIL (Prodotto Interno Lordo). OK, ma come la misura? I due registi - Arun Bhattarai (buthanese) e Dorottya Zurbó (ungherese) - seguono uno degli agenti governativi (Amber) incaricati di girare tutto il Paese per sottoporre alla popolazione il questionario, che prevede 149 domande soddivise in 9 categorie diverse. Ma chi pensa alla felicità di Amber? Lui, in quanto appartenente alla minoranza nepalese, non ha né cittadinanza né passaporto, e quando la donna di cui si è innamorato decide di partire per l'Australia in cerca di un futuro migliore, tutto quello che può fare è accompagnarla all'aeroporto, invece che unirsi a lei. Su e giù per i suggestivi paesaggi himalayani, il viaggio di lavoro di Amber è anche un viaggio personale alla ricerca della propria (e dell'altrui) felicità. Tanto difficile da ottenere quanto, forse, da misurare.