Talk to Me: tra spettri e cellulari, l’adolescenza è un horror. La recensione del film

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Al cinema in Italia dal 28 settembre, l’opera prima dei celebrati youtuber australiani Danny e Michael Philippou è un perturbante, crudele viaggio alla scoperta di quanto sia difficile e terrificante essere adolescenti oggi tra dipendenza, dolore, e solitudine 

“Noi esseri umani che siamo? Spettri, impalpabile ombra” Cosi scriveva Sofocle nell’Aiace. E anche Talk to Me parla di fantasmi. E in fondo l’esordio cinematografico dei gemelli Danny e Michael Philippou è una tragedia greca mascherata da film horror. Dai produttori del capolavoro Babadook, griffato A24, la nota casa di produzione e distribuzione che ha trionfato agli Oscar 2023 con Everything Everywhere All at Once  ,Talk To Me esce nelle sale cinematografiche italiane il 28 settembre grazie a Midnight Factory, etichetta horror di Plaion Pictures.

"Mai giudicare un libro dalla copertina ", come diceva il maître à penser in  guêpière Frank-N-Furter. Perché a un primo, distratto, sguardo, il lungometraggio potrebbe essere l’ennesimo, esangue, dozzinale prodotto per teen da guardare distrattamente, mentre ci si messaggia su whatsapp o si naviga, svogliati alla ricerca di un video virale su Tik Tok. Insomma, non si tratta della consueta combriccola di giovinastri ottusi, dopati e alticci, che evoca per gioco l’esotico demone pagano con conseguente carneficina in computer graphic e uso indiscriminato e illegale di jumpscare . Invece, senza salire in cattedra, schivando il moralismo d’accatto, i due registi attraverso una storia spaventosa e sovrannaturale, fotografano con stile ed efficacia la realtà in cui viviamo. Aveva ragione il grande Lucio Fulci: "L'horror (quando è fatto bene n.d.a.) è soprattutto un cinema di idee. "

 

Talk to Me, la trama del film

L’incipit di Talk to Me è un killing joke (uno scherzo che uccide). Grazie a un piano da sequenza da applausi, il  film ci trasporta nella più scontate delle signorili ville con piscine dove ha luogo l’ancora più corrivo, tra droga, sesso (ma senza rock’n roll9 che hai giovani non piace più) Il teatro della deboscia presto muta in una scena del crimine. Un ragazzo di nome Duckett, seminudo, sbarella nel bagno e farnetica frasi privi di senso. I compagni di bisboccia, ça va sans dire, immortalano il delirio dello svalvolato, che manco i paparazzi in Via Veneto ai tempi della Dolce Vita. Solo Cole, il fratello maggiore cerca di soccorere il fratellino in pieno bad trip. Ma è troppo tardi. La Nera Signora segna un'altra tacca sul suo fucile. Il ragazzino prima accoltella il soccorritore e poi si suicida stile Edipo quando si accecò per espiare la sua colpa. Dissolvenza al nero ed ecco che i palesa il titolo del film. E siamo in una situazione diametralmente opposta  

 

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La cognizione del dolore

Ora la protagonista è Mia (Sophie Wilde) una ragazza di 17 anni. È l’anniversario della morte si sua madre. Come succede in quasi tutti il film horror di questi ultimi la anni, la ragazza non riesce a comunicare con il padre, perennemente depresso. ça va sans dire L’unica soluzione per anestetizzare il dolore e la disperazione e fuggire per raggiungere la casa della sua migliore amica Jade.

Quando un video di una possessione spiritica su Snapchat diventa virale a scuola, Mia scorge l’opportunità di attirare l’attenzione di Jade, la quale ormai ha occhi solo per Daniel, che è stato il primo ragazzo di Mia quando erano bambini. Mia convince Jade e Daniel a unirsi a lei durante la successiva evocazione spiritica. Quando i loro amici tirano fuori una mano di ceramica ricavata dal braccio imbalsamato di una medium e la usano per farsi possedere dagli spiriti, i ragazzi trovano immediatamente il loro nuovo sballo. L’unica regola del gioco è esorcizzare lo spirito entro 90 secondi, altrimenti lo spirito cercherà di restare. Arriva il turno di Mia di pronunciare la fatidica frase “Parla con me”, e subito la giovane viene posseduta da un’entità assai volgare che assume il controllo del suo corpo. Mia è elettrizzata: non si sentiva così viva da molto tempo e rimane totalmente affascinata da questa esperienza. Ma bisogna sempre avere paura di quello che si desidera. E quella mano aprirà la porta dell’inferno per la ragazza e i suoi amici

 

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La solitudine ai tempi dei social

"La solitudine che gli angeli non conoscono" (la citazione è di Cechov) è invece la fedele e implacabile compagna dei giovani protagonisti di Talk to Me. Forti degli 1,5 miliardi di visualizzazioni su YouTube (il loro canale si chiama RACKARACKA,) conoscono gli adolescenti e il loro mondo, le loro inquietudini. Infatti, il film rappresenta uno dei pochissimo film horror in cui giovani attori non recitano come  adulti che scimmiottano il linguaggio dei ragazzi. E bastano un paio di sequenze horror, davvero crudeli, potenti e ben realizzate per terrorizzare il pubblico. Sarà una banalità, ma il troppo stroppia perché non è aumentando cadaveri del Body Count che si amplifica la paura. Senza questa precisione chirurgica nel raccontare un mondo in cui nessuno comunica (in questo senso il titolo del lungometraggio è davvero geniale) ma tutti fotografano, sbertucciano e sono terrorizzati di essere cringe, la pellicola sarebbe risulta innocua se non addirittura risibile. Anche perché la mano imbalsamata possiede meno allure wicca della famosa tavoletta

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NOI STESSI SIAMO I NOSTRI DEMONI

 I due gemelli sono già al lavoro su un prequel di Talk To Me. Ed è un’ottima notizia per un genere in cui la fotocopia, spesso e volentieri, impazza. L’elaborazione del lutto, la cognizione del dolore, la dittatura dei social, la dipendenza per sfuggire alla sofferenza abitano come spettri questo horror sorprendente e alieno, per fortuna allo sberleffo, all’(auto)ironia di grana grossa, all’overdose bulimica di metacinema, che solo maestri del calibro di Wes Craven possono permettersi. Certo, le citazioni, gli omaggi, le fonti di ispirazione non mancano: da Nightmare a It Follows, da The Ring a The Grudge, ma non sono mai proposte con la spocchia e la superficialità di chi, in fondo pensa che il cinema horror sia un genere minore, di serie B.  Con cautela, in punta di piedi, come un fantasma che ti sussurra nell’orecchio, il film ha l’ardire di prendersi sul serio, pur scherzando con il bric brac dello spiritismo d’antan. Non siano di fronte al Munbo Jumbo evocato da Boris Balkan (Frank Langella) in La Nona porta. L’opera, invece, ci pone l’annoso dilemma se ci si debba fidare dei vivi o dei morti. E soprattutto ci rammenta l’aforisma di Goethe: “Noi siamo i nostri propri demoni, ci espelliamo dal nostro paradiso”.

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