Drive My Car, la recensione del film candidato a 4 Oscar in prima tv su Sky

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Alessio Accardo

Arriva in prima tv stasera su Sky Cinema Due, in streaming su NOW e disponibile on demand DRIVE MY CAR, pluripremiata pellicola giapponese di Ryûsuke Hamaguchi, che, dopo il riconoscimento per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes e un Golden Globe come miglior film straniero, concorre agli Oscar® 2022 con quattro nomination di peso. La pellicola è un intenso road movie dell’anima, in viaggio tra le strade di Hiroshima ma anche nelle solitudini dei suoi protagonisti

Già vincitore del Prix du scénario al 74º Festival di Cannes, del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera e del BAFTA per il miglior film di lingua non inglese; e dopo aver ricevuto quattro candidature ai premi Oscar, tra cui quella nella categoria “miglior film”, prima volta nella storia per un film giapponese, arriva in esclusiva su Sky Cinema Drive my car, secondo la National Society of Film Critics il miglior film del 2021.

il film scritto e diretto da Ryûsuke Hamaguchi (già vincitore dell'Orso d'argento - Gran premio della giuria all’ultimo Festival di Berlino per Il gioco del destino e della fantasia) è un’opera complessa, a partire dalla sua imponente durata: due 2 ore e 52 minuti. 

Drive My Car è un film sostenuto da un ritmo solenne e austero, e potrebbe perciò risultare indigesto a certi palati occidentali. Però chi si darà la pena di sorpassare i limiti dello scetticismo e dell’inconsueto, si regalerà un piacere unico, quello di un capolavoro preziosissimo e indimenticabile nato non a caso sotto l’egida di Anton Čechov e di Haruki Murakami.

A quest’ultimo si deve l’origine letteraria del soggetto: Drive my car è infatti un adattamento cinematografico dell'omonimo racconto di Murakami (contenuto nella raccolta “Uomini senza donne”), il più importante scrittore giapponese vivente. Ma non basta: il film si apre sulla visione di una coppia di persone, il regista teatrale Yusuke Kafuku e sua moglie Oto, che fanno l’amore raccontandosi delle storie erotiche estrapolate da altri racconti di Murakami.

Quantunque essi si confessino platealmente di amarsi moltissimo, sembrerebbe che questo sentimento si regga piuttosto su un’algida comunione intellettuale piuttosto che sulla passionalità dell’impero dei sensi (per citare uno dei titoli più famosi della cinematografia erotica di tutti i tempi, il giapponese Ecco l'impero dei sensi di Nagisa Ōshima). Sono due intellettuali, dopotutto, lei drammaturga e sceneggiatrice lui regista e attore teatrale; e a giudicare da quel che si vede, sembrerebbero riuscire a eccitarsi prevalentemente grazie alla declamazione delle parole del romanziere di Kyoto, reiterate prima e dopo le fatiche dell’amore e utilizzate come strumento terapeutico per elaborare un terribile lutto: il prematuro decesso della figlia unica, morta di polmonite ad appena quattro anni. La sua morte segnò la fine della loro felicità: Oto smise di recitare, Yusuke lasciò il lavoro in tv e tornò a teatro. Fu allora che lei prese l’abitudine di consumare una serie di rapporti fedifraghi e adulterini, cui il marito assiste di nascosto rimanendo quasi impassibile.

 

 

Un giorno qualunque i due si salutano con la promessa di parlarsi di qualcosa di piuttosto importante. Ma quel dialogo non avverrà mai: tornato a casa dopo un workshop, il regista si accorge che sua moglie è morta all’improvviso di emorragia cerebrale, nel più tragico dei “turning points”. Adesso possono partire i titoli di testa, dopo ben quaranta minuti di film, nei quali il regista giapponese si era già preoccupato di disseminare una serie di significativi indizi (un improvviso sinistro stradale della coppia, la diagnosi di un glaucoma che potrebbe causare la perdita della vista al regista, la cerimonia di commemorazione della figlia dei due); incidenti di percorso che, intervenendo a turbare un placido ménage di coppia, avevano già segnalato un sentimento di incombente tragicità.

Una didascalia ci informa che sono passati due anni. Yusuke viene ingaggiato per mettere in scena lo Zio Vanja di Cechov in un festival teatrale che si tiene a Hiroshima; luogo che reca in sé il retaggio indicibile del disastro nucleare, come un non detto che aleggia tetro sui posti e tra le parole che udiamo. Gli presentano Misaki, la sua autista, una giovane guidatrice. Una persona apparentemente diversissima da lui: ha appena 23 anni, ha perduto la madre dopo un disastro naturale e si trova lì per puro caso. “Guidare è l’unica cosa che so fare” dice.

 

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Di qui in avanti il film narra il rapporto peculiare di questa strana coppia, in un abitacolo che diventa contemporaneamente set cinematografico, setting psicoanalitico e sala prove teatrale. Yusuke era solito ripassare in macchina le battute della pièce da mettere in scena, grazie a delle cassette registrate dalla moglie; e continua a farlo al cospetto della sua giovane autista. Risuonano lì perciò alcune delle battute dell’immortale capolavoro del drammaturgo russo (come queste: “La fedeltà di quella donna non è che una sporca bugia” oppure “Ciò che è spaventoso è vivere senza sapere come stanno le cose”) che baluginano come didascalie immaginarie di quanto abbiamo appena visto o che vedremo in seguito nel plot principale.

Sì, perché questo fluviale capolavoro orientale è puro “cinema di parola” in cui vari piani del “logos” si intersecano continuamente.

Vi è anzitutto l’uso plurimo dei racconti di Haruki Murakami - di cui già si è detto - che si intrecciano con la trama in primo piano finendo per condizionarla in modo sottilmente paradossale. Quindi il continuo rimando tra i dialoghi dei personaggi del film e il testo di Cechov, che viene continuamente letto, detto, recitato, mandato a memoria; nella Saab turbo rossa cui allude il titolo del film, nella sala prove del dramma da rappresentare e infine sul palcoscenico del teatro.

Indicativa da tale punto di vista anche la scelta diegetica di far recitare la pièce da attori provenienti dai più diversi paesi dell’estremo oriente: cinesi, filippini, giapponesi, coreani, taiwanesi che parlano in mandarino o in inglese e persino un’attrice udente ma muta che usa il linguaggio dei segni. Una polifonia plurilinguistica e multiculturale che costituisce una sorta di spartito lessicale che fa da contrappunto sonoro alla scabra vicenda narrata in primo piano.

L’espediente metalinguistico del film, che racconta il progressivo farsi di una messinscena teatrale, consente allo spettatore di assistere a uno spettacolo al quadrato (o se si preferisce a scatole cinesi), nel quale di quando in quando il flusso della narrazione cinematografica è come intercalato da lacerti di autentico teatro; tanto più autentico quanto più la recitazione degli attori è talvolta costretta a ricorrere all’improvvisazione, per provare a oltrepassare le barriere dell’incomprensione linguistica.

Ma l’anima più riposta ed essenziale di questo road-movie esistenziale risiede nel rapporto di ascolto e reciproca comprensione dei due protagonisti, così lontani eppure così vicini. Risalendo lungo il corso delle rispettive biografie, segnate dal lutto, essi scoprono assonanze a prima vista impensabili. È proprio nell’empatia che si sprigiona progressivamente dalla loro interlocuzione, dapprima balbettante quindi sempre più fluida, che emerge il tema del film: l’accettazione di sé stessi oltre i lutti e oltre i rimpianti, nell’uscita dal proprio egocentrismo e nell’accettazione dell’altro. Come spiega sin troppo eloquentemente (anche se significativamente affidata all’interpretazione dell’attrice muta) la poetica scena dello Zio Vanja cui ci viene offerto il privilegio di assistere nel sottofinale (“Vivremo una lunga fila di giorni e di interminabili notti.” recita il dramma di Cechov “Affronteremo pazientemente le prove che ci manderà il destino, senza conoscere riposo. Continueremo a lavorare per gli altri, adesso e in vecchiaia.”)

Ma occorre tempo affinché i due personaggi superino le rispettive diversità e le proprie ritrosie, lo stesso tempo che servirà allo spettatore per scoprire il tesoro nascosto in quest’opera complicata, che va aspettata e gustata pazientemente. 

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