Il grande attore francese è morto a 88 anni. Lanciato nel firmamento da "Fino all'ultimo respiro" di Jean-Luc Godard, rubò la scena con un ruolo generazionale, di rottura anche nelle scelte e nei comportamenti davanti alla cinepresa
I cinefili di oggi – di quella categoria che prova fastidio per tutto ciò che è passato, è vecchio, rifugge dalla nostalgia e non si accosta per partito preso alle pellicole in bianco&nero – forse avranno fatto in tempo a notare quel logo bianco-nero che richiama Le iene e inaugura le prime pellicole di Quentin Tarantino. E sotto la scritta: A Band Apart. Procedendo a ritroso, trasportati dalla corrente di Wikipedia, saranno finiti sulla pagina di Bande à part, settimo lungometraggio di Jean-Luc Godard, di cui Tarantino era fedele adepto tanto da dedicargli una casa di produzione; e poi via via fino all'origine di tutto, o quantomeno di gran parte del cinema contemporaneo, ovvero Fino all'ultimo respiro (1960), in francese À bout de souffle. E non sarebbe esistito À bout de souffle – e tantissime altre cose – senza la ghigna e la strafottenza di Jean-Paul Belmondo.
Fino all'ultimo respiro è una sequenza di calci e pugni allo stomaco al cinema tradizionale da togliere il fiato. È un noir recitato da due attori bellissimi – lui Belmondo, lei la sfortunata Jean Seberg, il cui capello corto biondo divenne generazionale – e una trama assai esile che si perde in mille rivoli di sperimentalismo e provocazioni tecnico-formali dalla tipica arroganza di un'opera prima. Gli attori guardano sfacciatamente in camera, Godard li fa uscire dall'inquadratura da destra e riapparire da sinistra, calpestando volutamente ogni grammatica del cinema. Scavalcamenti di campo come se piovesse, primi piani su nuche in movimento, jump cut esibito, zero luci artificiali, dialoghi letterari e velleitari che fanno da preludio a snodi narrativi al limite del nonsense. Il futuro! O meglio la nouvelle vague, che anticipò alla fine degli anni Cinquanta le contestazioni totali del decennio successivo, imponendo la voglia di stravolgere le cose di un manipolo di cinéphiles impenitenti, capeggiati da Godard e Truffaut. In Fino all'ultimo respiro Belmondo era il braccio armato del regista, che a lui chiese di spingersi fino allo sberleffo supremo verso i cultori della tradizione: guardare in camera, rivolgersi direttamente agli spettatori, ricordargli magari che avevano pagato un biglietto spezzando l'illusione e la magia della cinepresa: voi non siete me, voi – sottinteso – potete solo sognarvi di essere Jean-Paul Belmondo.
approfondimento
E' morto Jean-Paul Belmondo
“Aprés tout, je suis con” (dopo tutto, sono un cogl... un cretino) erano del resto le memorabili prime parole del film, seguite da un'inquadratura ancor più leggendaria: Belmondo che abbassa il giornale, si svela con la sigaretta in bocca, la toglie e si passa il pollice destro sulle labbra carnose, un gesto voluttuoso e del tutto non necessario, come l'intera idea di cinema ripensato da Godard. Sdraiato a letto con Patricia, il suo Michel Poiccard si abbandonava a riflessioni sfrenate sulla vita e la morte, elucubrazioni a vuoto che nel film trovavano molto più spazio rispetto alla “polpa”, la trama di un noir che non interessava davvero a nessuno. Il fascino di Belmondo era tale da rendere credibili e sopportabili anche le battute più pompose e pretenziose, come quando Jean Seberg lo stuzzica chiedendogli un parere su una frase di William Faulkner (“Tra il dolore e il nulla, io scelgo il dolore”). E lui, con ineguagliabile sicurezza: “Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla: non è meglio, ma il dolore è un compromesso. O tutto, o niente”. E prima, e dopo: “Togliti la camicetta, fammi vedere i piedi”. Nessuna contraddizione, a patto di essere Jean-Paul Belmondo.
approfondimento
Cannes 2018, nel poster ufficiale il bacio Belmondo-Karina
Era sopravvissuto a un'ischemia cerebrale che l'aveva colpito nel 2001, sia pur diradando sensibilmente le apparizioni in pubblico. Ad ogni modo, l'ironia non l'aveva mai abbandonato. Perfettamente coerente con l'uomo e il personaggio il fatto che sia morto oggi, nel bel mezzo del Festival di Venezia della ripartenza che si esprime anche attraverso tutti quei vip generosamente accorsi in Laguna, quasi tutti pallide imitazioni dell'inarrivabile “Bébel”.