Liliana Fiorelli, tra cinema, serie tv, talento, passione e la libertà di dire no
Spettacolo Foto: Francesco Termine
In questa intervista, Liliana Fiorelli riflette sulla sua vocazione per la recitazione, sul lavoro nei film di Paolo Virzì e nei set di cinema e serie tv, tra personaggi popolari, ruvidi e intense villain. L’appartamento - Sold out (RaiPlay) e Non ci resta che il crimine – La Serie (Sky On Demand) diventano lo spunto per parlare di identità professionale, del valore di saper dire no, di femminilità, cittadinanza. E di un desiderio che oggi rivendica con consapevolezza: un futuro “sfacciatamente felice”.
Dalla vocazione “genetica” per la recitazione ai set del cinema e delle serie tv, passando per i due film di Paolo Virzì e per una galleria di personaggi che vanno dal popolare al magneticamente oscuro, Liliana Fiorelli ha costruito negli anni una traiettoria artistica sempre più definita. Una traiettoria fatta di studio, ironia, istinto e scelte precise: comprese quelle che, come racconta, passano dal coraggio di dire no.
Ne emerge il ritratto di un’artista matura, capace di attraversare media diversi senza perdere identità, e al tempo stesso di una donna che dopo un percorso di ricerca e disillusioni può rivendicare un desiderio semplice e potentissimo: arrivare, un giorno, a essere “sfacciatamente felice”.
Intervista a Liliana Fiorelli
C’è stato un momento in cui hai capito che saresti stata un’attrice?
Guarda, un momento di “illuminazione” in realtà non c’è stato. È come se fosse qualcosa di connaturato alla mia essenza, alla mia genetica. C’è sempre un po’ questa domanda: “Fai l’attrice o sei attrice?” Ecco, io mi ci sento proprio.
Io non so fare nient’altro. Se mi dessi in mano un goniometro, un F24… sarei persa. Fare l’artista, fare l’attrice fa talmente parte di me che non riesco a immaginarmi in altro modo.
Però, ripensandoci, da bambina è successa una cosa. A Roma, come in altre città, passavano i talent scout per gli spot dei giocattoli. So che c’era stata un’attenzione verso di me, ma non ho mai saputo se i miei genitori abbiano un po’ frenato questo interesse. Io ricordo solo la sensazione di dire: “Sì sì, mi butto!”.
E comunque non ho praticamente mai smesso: da quando sono piccola faccio teatro. È l’attività che mi ha sempre accompagnata.
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Sei spesso definita un’artista cross-mediale. Qual è la tua vera comfort zone?
È vero che i media differiscono per formato, ma alla fine il set è sempre il set. Devo dire però che la mia comfort zone — che a volte è anche una stretch zone, uno spazio in cui imparo — è sicuramente il set cinematografico.
Lì sento fortissimo l’odore della missione: l’idea di portare a casa qualcosa che abbia senso, che abbia un’identità, un profumo particolare. Nelle migliori ipotesi un buon profumo… a volte pure la puzza (ride), ma sempre qualcosa di riconoscibile.
E poi, per fare questo lavoro, bisogna amare l’umano, amare le persone. È banale dirlo, ma è basilare. Quando incontri persone con cui c’è gioco, c’è professionalità, c’è crescita, ogni luogo diventa una possibilità.
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Come hai costruito Luisa Fusco in L’appartamento – Sold Out?
(La serie è disponibile su RaiPlay.)
È un progetto molto autentico e onesto, frutto di un grande lavoro di squadra. Non ci sono i “soliti noti”: c’è una nuova generazione che nasce anche da progetti tenaci e un po’ ruspanti come questo.
Da spettatrice, guardandolo una volta finito, la cosa che più mi ha colpita è che affronta tematiche audaci e raramente esplorate con questa franchezza nella serialità italiana: maternità e maternità mancata, mestruazioni, identità di genere, integrazione e disintegrazione, inclusione ed esclusione. Temi attuali e anche un po’ scottanti.
È stato anche formativo: non sapevo, nel concreto, quanta difficoltà ci fosse ad ottenere la cittadinanza. L’ho capito parlando con gli attori: cosa significa avere un cognome “complicato”, il rischio che l’anagrafe sbagli una vocale e tu possa essere mandato via. È un rischio reale, costante. Parlare di queste cose anche fuori dal set è stato importante: da cittadina, alcune le ignoravo. Da attrice, ho capito quanto valga portarle in scena.
Luisa è una donna che ho imparato ad amare. All’inizio è ruvida, territoriale, come se si sentisse responsabile di un palazzo, di un quartiere, di un certo modo di stare al mondo. Ma in realtà cerca un posto nel mondo e un posto dell’anima.
Ho lavorato molto sul tema del valore: non solo “chi sono?”, ma “cosa è importante per me?” e “quanto sono importante io per me?”.
Ama profondamente suo figlio, diffida degli uomini, ma pian piano, ascoltando un po’ di più gli altri, ritrova fiducia, tenerezza, affetto non solo sentimentale ma anche amicale. Il rapporto con Irene, la figlia del personaggio di Giorgio Pasotti, è fondamentale.
E poi c’è la realizzazione professionale, un traguardo enorme per una donna come lei..
Cosa puoi anticiparci del film Il Grande Boccia, in arrivo al cinema?
Posso dirti solo: preparate i popcorn! È un film autentico e molto studiato. I cinefili lo ameranno per i tanti dettagli nati dal lavoro minuzioso di Karen Di Porto. È anche l’ultimo film prodotto dal leggendario Galliano Iuso, insieme a un Tanio Boccia straordinariamente empatico interpretato da Ricky Memphis.
In Il Grande Boccia si incontrano due mondi: il pubblico più generalista e i cinefili accaniti. La storia racconta un modo di fare cinema con pochi soldi in tasca, artigianale, raffazzonato, che però appartiene alle nostre radici e a un’Italia che non c’è più.
Ed è, soprattutto, la storia di un uomo che usa le armi che ha per inseguire il suo sogno. Un film che può davvero deliziare chi ama il cinema.
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Che ricordo hai dei film girati con Paolo Virzì?
Nei suoi film c’è un’autorialità potente, che incute anche un po’ di reverenza. Erano progetti molto corali, con cast di altissimo livello: a volte è difficile trovare il proprio posto, essere un filo nella treccia o una perla nella collana.
Porto nel cuore Siccità e Un altro Ferragosto, per motivi diversi.
In Siccità mi ha colpito il lavoro sull’intimità dei rapporti. Uscivamo dal post-Covid, anni complessi, e vedere Roma raccontata in modo distopico ma profondamente realistico mi ha emozionata. Vederlo poi a Venezia, tutti insieme, è stato bellissimo.
Un altro Ferragosto mi lascia una dolce nostalgia di un sogno generazionale. Un cult nazionale. Ventotene non è solo un set: è un luogo identitario, che racconta l’Italia, l’Europa, le battaglie fatte e dimenticate. Il divertimento c’è stato, ma i film di Virzì mi hanno regalato molto più del “solo cinema”.
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Com’è stato interpretare la villain in Non ci resta che il crimine – La Serie?
(La serie è disponibile su Sky On Demand.)
Ho adorato la serie perché finalmente c’è del sano spettacolo. Mi sono divertita a seguire l’azione, il movimento, il racconto.
Come dicevi, in Italia ci sono poche villain femminili, e ancora meno che non siano ipersessualizzate. Marisa invece è diversa: crede ferocemente in principi rigidissimi, ma è una donna che reagisce a una ferita enorme, un affronto. La cicatrice sul suo volto lo racconta già da sé.
Ci siamo ispirati anche a un immaginario alla Gattaca: una durezza quasi robotica, un distacco completo dall’empatia. Il suo attaccamento ai valori è una corazza contro il dolore.
Lavorare su due ruoli è stato bellissimo, una vera gratificazione per un’attrice.
E se un giorno volessero fare uno spin-off su Marisa… io sono qui! (ride)
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Hai detto che ti hanno definita “troppo bella per far ridere”, cosa che trovo assurda — penso a Monica Vitti o alle attrici della screwball comedy come Carole Lombard e Rosalind Russell. Secondo te abbiamo superato questa stupidaggine?
Diciamo che è presto per dirlo, ma sì, è una cosa particolare. Hai citato attrici americane brillantissime e Monica Vitti è l’esempio perfetto.
Però noi siamo in Italia, la “provincia” d’Europa, e abbiamo ancora molti retaggi.
Nella commedia spesso si chiede alla donna di essere l’immagine bella in inquadratura, dal piede in su. Si può essere belle e fare commedia, certo, ma quando la scrittura diventa più autoriale, più sottile, scatta l’idea che tu debba essere problematica, disturbante.
Il punto non è la bellezza: sono le forme, l’essere naturalmente sensuale. In certi contesti mi è stato detto: “Sei troppo bona”. Ed è assurdo vedere problematicizzate caratteristiche naturali. Se tu non hai un problema e qualcuno te lo fa venire… è terribile. Stavi bene, e improvvisamente ti dicono che c’è qualcosa che non va.
Che ricordo hai del periodo trascorso a Los Angeles?
Sono stata a Los Angeles qualche mese, troppo pochi, ma ci tornerò presto. Era una borsa di studio che desideravo moltissimo: ho pregato tutti gli dèi possibili per ottenerla (ride).
Sono partita con aspettative sane: sognavo, ma senza illusioni. Mi sono goduta gli incontri e la formazione. Amo l’approccio americano alla recitazione, insieme professionale e spirituale. In Italia la formazione è spesso piena di ego; lì ho incontrato persone che non avevano bisogno di sgomitare o atteggiarsi.
Paradossalmente Los Angeles mi ha insegnato una nuova forma di umiltà. La scuola era un luogo protetto: una piazza non fa la città, certo, ma la mia esperienza è stata molto positiva.
Nel film I predatori, Paola — il tuo personaggio — si chiedeva dove sarebbe stata in futuro. E tu, come ti immagini tra dieci anni?
In effetti, da quel film sono già passati quasi dieci anni, quindi verrebbe da chiedermi cosa sarebbe piaciuto alla me di allora.
Tra dieci anni spero di essere sfacciatamente felice.
Ancora con il mio fidanzato, il mio cagnolino, i miei gatti, chissà dove, a fare la giramondo: sagre, paesini, nazioni, dalla Lapponia all’Africa. Vorrei vedere i posti più assurdi del mondo.
“Sfacciatamente felice”: tutto qui.
Vittorio Gassman diceva: “Un attore perfettamente sano è un paradosso”. Tu ti senti più una donna che si protegge recitando o un’attrice che guarisce vivendo?
A guarire ci ha pensato la mia psicanalista, che ha fatto un ottimo lavoro (ride). Dare a un gioco — perché il nostro mestiere è anche gioco — un ruolo curativo mi sembrerebbe un insulto alla professione.
Io mi sento una persona che si difende recitando. È incredibile: ho fatto mille test e sono un’introversa totale, nessuno lo direbbe.
Mettiamo il nostro best dress, andiamo a ballare, siamo una dancing queen.
Poi torniamo a casa con la nostra copertina e ci ritroviamo.
Da un po’ rispondo: “Sono un’attrice felice”.
Non sempre si può associare un aggettivo così al proprio lavoro, ma io ho fatto pace con questo mestiere, con cui pure mi sono dannata.
Per anni ho inseguito la compiacenza, il salto, l’illusione del “grande salto” dei vent’anni. Poi capisci che ciò che devi costruire è una carriera, e una carriera è una costellazione: può avere quattro stelle o miliardi, come la Via Lattea, ed essere comunque bellissima.
Oggi dico sì e no con entusiasmo.
E credo che questa sia una bellissima forma di felicità.