Maurizio Lastrico: “Il mio biopic si chiamerebbe Il Rimuginatore”

In “Call My Agent – Italia”, la cui terza stagione è in onda su Sky e in streaming su NOW, è Gabriele, l’agente dal cuore d’oro un po’ pasticcione. In “Follemente” di Paolo Genovese era Romeo, la parte più romantica e sensibile della personalità del personaggio interpretato da Edoardo Leo. Nella vita, Maurizio Lastrico è un attore e ama esserlo. Col suo spirito dissacrante, una innata voglia di far ridere e la paura di scomparire, di non essere più amato. Ospite di Stories, il ciclo di interviste di Sky TG24, si è raccontato proprio a partire dal suo ultimo impegno professionale, in un viaggio a ritroso e a balzi tra l’infanzia, l’adolescenza, gli studi, la gavetta, i sogni e i timori. Su Sky è arrivata la terza stagione di "Call My Agent – Italia". Per i pochissimi che non l’hanno mai vista, di cosa parliamo? È una serie di ispirazione francese, adattata da “Dix pour cent”, ma che ha un'anima tutta italiana. Immaginate una serie dove i grandi attori italiani vengono a recitare sé stessi in un mondo dove noi interpretiamo i loro agenti, con tutti i casini che succedono nell'agenzia. In questa serie i guest si prendono in giro rispetto a delle cose parzialmente vere, o che le persone comunque gli attribuiscono. Cosa gli succede in questa stagione? Luca Argentero è preso dalla voglia di non fare più niente, vuol stare con la sua famiglia. Per la nostra agenzia è un casino, perché lui ci porta degli introiti, tutte le serie che fa vanno alla grande. Michelle e Aurora sanno che sta uscendo un musical fantastico che sognano perché lo amano, ma per farlo devono lavorare insieme. Lavorare con la propria figlia, con la propria madre, oscurarsi. E poi c’è tutto il tema del nepotismo. Stefania Sandrelli è alle prese con una regista emergente di quelle pazze, di quelle che fanno le robe dure, che ha avuto uno scontro in passato con lei. Stefania Sandrelli nel mondo di oggi, come se fosse con i fratelli D’Innocenzo, immaginiamo. Il cast di “Romanzo criminale - La serie” deve fare un reboot, ma c'è tutto un cast di giovani che vogliono sopravanzarli e la dinamica è quella dello sgomitare delle nuove generazioni rispetto a chi vuole tenersi la poltrona. Miriam Leone racconta una cosa molto vera e lo fa con una profondità entusiasmante: quando diventi mamma ti danno solo ruoli da mamma, quando fai bene un ruolo, in questo mondo tendono a ridartelo sempre. Ficarra e Picone fanno una cosa fantastica: io te siamo una coppia, mi prendono a Hollywood e tu dici: “Ma no, non puoi andare, dobbiamo fare le cose insieme”. Sì, ma cosa succederebbe se la cosa si ribaltasse? Tutti i guest si prendono in giro. Chi è quello che si è preso più in giro e che si è anche più divertito? Ah, questo bisognerebbe chiederlo a loro. Io ho delle immagini, ovviamente. Penso a Stefano Accorsi nella prima stagione, aveva una voglia di entrare nella commedia, di prendere in giro la sua bulimia di lavoro, era un treno, con una fame che sembrava facesse il primo ruolo della vita. Nell’ultima stagione io ho amato tantissimo un momento in cui Stefania Sandrelli è davanti a questa regista innovativa, dura, che le chiede di fare un provino. E figurati se Stefania Sandrelli fa un provino per una roba del genere. Lei invece lo vuole fare, si mette in questa sala a recitare con un filo di voce, le lacrime agli occhi. La forza di "Call My Agent" è questa: unire momenti comici a momenti veri. Questa è la bellezza di poter recitare in questo mondo e noi siamo grati a chi ce l'ha portata. Ti riporto indietro nel tempo, casa Lastrico, quella da bambino: dove siamo? Com'era fatta? Chi c'era? Manesseno di Sant'Olcese, ai confini di Genova, un comune di 6000 persone. Mio papà lavorava alla Sanac che era una ditta di latterizi vicino a Bolzaneto. Una casa piccola, avevo il letto in cucina e potevo dire di avere il frigo in camera. Mia mamma veniva dall’entroterra ligure, quasi al confine con l’Emilia. Ricordo una grande ironia, i discorsi in dialetto genovese, l’umorismo fantastico di mio padre. Sono successi anche tanti casini dopo, ma quella casa lì, frequentata da tanti amici che sono la mia famiglia, è stata l'inizio di tutto quanto, dei pensieri, dell'ironia. Che bambino eri? Problematico, nel senso che ero in contrasto con mio papà, non volevo fare le cose pratiche, andare con lui nell'orto non mi piaceva, preferivo stare con gli amici. Ero attirato da quelli che sparavano cavolate. Ma è vero che ti piaceva già fare gli scherzi al punto che, dopo aver visto “L'esorcista”, hai parlato in latino a tua mamma per cercare di convincerla di essere posseduto? In realtà io credevo di fare una scemata. Io ero un po’ esuberante e mia mamma, da buona cattolica, quando aveva un po' di difficoltà a gestirmi chiamava il prete, il grande Don Giorgio. Allora io mi nascondevo e dicevo: “Asbidut, aiminuai, aimonetva”. Credevo che mi avrebbe detto qualcosa tipo: “Scemo, vai via”, e invece mi guardava come dire: io una telefonata in Vaticano la farei. Ed era bello quando questi personaggi erano veri per gli altri. Ora credo che sia stata un po' romanzata, però sì, è iniziato così il gusto per far coincidere la finzione e la realtà. E tante volte fuori di casa creavo delle situazioni parlando da posseduto, fingendo di essere un'altra persona, magari al ristorante prendevo le ordinazioni alle persone, quelli che vendevano la Bibbia cercavo di convertirli a una religione mia. Ci sei riuscito? Spesso no, però qualche volta sì. Uno ha cercato di vendermi un computer per telefono, gli ho detto che lo avrei comprato volentieri però avevo questa casa in Puglia che non riuscivo a vendere e gli ho chiesto se lui avesse avuto dei contatti, perché se non fossi riuscito a venderla sarei stato proprio incasinato. Mi ha passato dei contatti per vendere questa casa, che ovviamente non c’era. Per fortuna adesso mi pagano per fare queste cavolate dentro un copione e non mi faccio arrestare. Quanti lavori hai fatto prima di fare l'attore? Ho fatto l'animatore nei villaggi. A scuola ho studiato da operatore turistico e solo più avanti ho fatto l'Accademia d'arte drammatica. Ho fatto il boscaiolo, per tipo 10 giorni. Ma è stata una buona esperienza? Eh sì, perché non mi sono tagliato le mani, però per il livello di disboscamento di Sant'Olcese non è stata una gran cosa. E poi l'educatore, per tanto tempo. Quando i miei si erano separati ho frequentato questo centro di aggregazione e c'era un servizio sociale a Sant'Olcese che funzionava veramente alla grande. Venivano monitorati un po' tutti i casi del comune, c'erano veramente delle persone che si prendevano a cuore la situazione. Lì i miei educatori mi hanno chiesto, visto che funzionavo bene coi meccanismi, di diventare io stesso educatore: è stato stupendo e credo di portarmi tanto dietro di quel periodo nelle cose che faccio, sia comiche che no, e di aver relativizzato tante delle mie paturnie. A un certo punto mi sono detto che assorbire tutta quella roba lì era un po' tanto, volevo fare i conti con la mia creatività, e sono entrato in Accademia a Genova. E non era facile entrarci. Ne pigliavano sei su 800… E infatti Luca e Paolo raccontano che era una selezione dura. Crozza portò “La Vispa Teresa”, all'ottavo tentativo. Tu cosa portasti? Io avevo portato, a 19 anni, “L'uomo dal fiore in bocca” di Pirandello: bocciato. C'era la Messeri, la nostra insegnante, che faceva le parole crociate, credo, mentre io mi struggevo. Allora poi ho portato Stefano Benni, “La topastra”, che è un monologo comico e quello lì andò bene. Poi mi diedero delle altre prove per entrare. Sono grato di aver avuto l'opportunità di occuparmi di recitazione in quel modo fantastico. Alle superiori che studente eri? Un secchione che voleva fare casino. Volevo essere amato dai casinisti e dai professori, per questo ho fatto operatore turistico. Mi piaceva un sacco, però già lì c'era una spinta artistica. Ci tenevo molto che tutto andasse bene, portare a mia mamma i voti per dire che ero in gamba. Hai fatto scherzi anche a scuola? Beh, uno non male con il mio amico Bogo, che oggi è un regista di film trash horror. Nessuno di noi ha fatto mestieri legati al turismo. Andammo dagli psicologi della scuola fingendo che io avessi rubato la fidanzata a lui, e litigammo davanti a loro: “Oh, a me piace, che cavolo vuoi? Se io amo lei, che cavolo mi devi frenare tu?”. Siamo arrivati a picchiarci di fronte agli psicologi e quando si è svelata la cosa, gli psicologi ci hanno chiamati per spiegare perché ci fossimo inventati tutto, che problemi avessimo. Ma in realtà era un rifiuto dell'ordine costituito, della monotonia della vita, voler incidere in qualche modo con la creatività. Era una forma di ribellione. Scema, però. I tuoi inizi televisivi, anche artistici, sono un po' segnati, da Dante. Dalla vita quotidiana in terzine, diciamo. È stato un crossover nato all'Accademia d'arte drammatica, sempre per quel gusto di scardinare le cose costituite. Studiavamo Dante tutti i giorni. La nostra insegnante, Laura Messeri, era una dantista e aveva già più di 75 anni. Dovevo studiare un centinaio di versi e una notte mi sono trovato a scrivere: “Uscito a tarda sera in palestra/rincorsi la corriera con premura/quand'ecco che mi chiama un punkabbestia/Più di me, aveva gobba la postura”, eccetera eccetera. La mia insegnante l'ha sentito, io credevo si sarebbe inc****ta per questa cosa. E invece ha corretto la metrica e con lei mi sono trovato a scrivere i primi pezzi a Zelig, lei col whisky e il sigaro: “Mettici c***o qua che fa ridere”. Dopo le prime “divine commedie” che faticavano anche a entrare nelle orecchie della gente, mi scrisse un messaggio: “Stai volando. Complimenti”. Mi ha fatto piangere, allo Stabile ti massacravano. Avere unito la mia creatività allo studio è stato qualcosa di stupendo, le sono grato a vita. Dalla “Divina Commedia” a “Don Matteo”. Il salto com'è stato? Era un periodo in cui Zelig cominciava un po' a faticare con gli ascolti. C'era un po' il timore che sembrasse una scelta di ripiego: “Ah, allora non funzioni più come comico”. Però lì c'era una possibilità di andare a fare un ruolo grande, dove veniva chiesta umanità, di andare a interagire con Nino Frassica, un lavoro attorale di grande difficoltà ma di grande piacere. Poi lì c'è stato l'incontro con Maria Chiara Giannetta e alla fine è stato uno di quei bivi della vita veramente fortunati: mi ha dato visibilità, opportunità di lavoro, ha aperto a collaborazioni fantastiche. Com’è Terence Hill? È un mito, non esiste, esce da un buco che tu non sai. Ma tu lo sai che veramente della gente gli chiede di essere confessata da lui, perché c'è una sovrapposizione tra personaggio e persona. Una cosa: per non dar fastidio ai costumisti, quando c'è troppo caldo lui non beve, così non suda e i costumisti non devono andare ad asciugarlo. Questo è Trinità. Viene dalla vecchia scuola del Western, ma ha un'accoglienza speciale verso le persone che arrivano. In "Don Matteo", morendo gente ogni 5 minuti, venivano tanti colleghi che magari erano alla loro prima esperienza e dovevano recitare una scena di quattro pagine così, davanti a Terence Hill. Il tipo di amore di cura che lui ha avuto per questi colleghi, queste persone, è un esempio che ci portiamo dietro. Lui quando entra nei taxi, chiede permesso e non lo fa paraculisticamente, è dentro il suo DNA. La comicità genovese si porta dietro un po' di caos e anche un po' di malinconia. Ti senti così? Sì, poi è una terra che ha dato natali a poeti e persone con quel tipo di concretezza, pane al pane e vino al vino. Grillo, Luca e Paolo, Crozza, Solenghi, ma anche le nuove generazioni di cantanti che stanno uscendo, mi vengono in mente Bresh o Holly, una loro forza è proprio il tipo di concretezza che hanno, rispetto al movimento che c'è, non sono dei trapper, hanno portato questo tipo di umanità, di fragilità non esibita. E c'è qualcosa di vero, di giusto. La paura del palcoscenico passa mai? No, almeno a me no. E ti posso assicurare che ogni volta che c'è una data, la giornata prima è durissima. Quando dopo tre minuti senti che va bene è tutte le volte una sorpresa. E quando finisce lo spettacolo sei la persona più felice che ci possa essere. Perché sei talmente amato che è come se ti dessero una patente per stare al mondo. Scaramanzie prima di salire sul palco? Non particolari. Ultimamente faccio questo gioco di lasciarmi qualche regalo. Sono molto sbadato, mi scordo le cose che faccio, tipo in albergo o nel camerino, una bibita che mi piace o qualcos’altro. Faccio un regalo al Maurizio di tra due ore. Come immagini il tuo funerale? Spero con tante persone che scherzino. Ma lo immagini in chiesa? Beh, io son figlio di mia mamma, devo proseguire questa cosa. Mia mamma, cintura nera di cattolicesimo, ci crede di brutto, senz'altro in chiesa. E poi gli amici salgono sul pulpito per un ricordo? Ma io li immagino come è stato in altre situazioni, più insieme, defilati, che scherzano e cercano di far casino sapendo che non si può far casino e poi vengono beccati. Credo che gli darei un'occasione per trovarsi in una situazione dove non si può ridere e quindi si deve ridere, cioè spero che sia una situazione del genere. In “Follemente” di Paolo Genovese interpreti Romeo, il lato romantico, dell'emotività maschile. Sei un romantico? No, non credo troppo. Senz’altro ho una certa sensibilità, però la visione di Paolo Genovese di questo Romeo era interessante: è un romantico di oggi, che ovviamente non scrive le poesie con la piuma, non fa la serenata sotto casa in rima, anzi si scontra con un mondo che sembra essere meno romantico. Quindi vive un po' la malinconia di questo e cerca di trovare la romanticità nelle piccole cose, come i cantanti Indie che fanno la poesia del telefonino. Che compagno di vita sei? Per la mia compagna credo una persona con tante mancanze pratiche e quindi in qualche modo da amare essendo spronato in tante cose, però credo di avere sempre anche una buona attenzione, una mente che immagina tanto per il futuro, e credo che ce la si passi anche bene con i riti nostri e il girare. Anzi, sono molto grato alla mia compagna. La frase che ti ripete più spesso la tua compagna. “È lì”, credo, “è lì”. Il primo amore adolescenziale non ricambiato. È stato un amore non ricambiato perché eravamo in fasi sempre diverse: quando lei mi stava dietro, io non volevo; poi mi sono innamorato io di lei. Si chiama Francesca, è stato un bellissimo ricordo. E non vi siete mai trovati? Mai. E forse l'amore era generato proprio da questa cosa di non beccarsi. Però bellissimo, erano le medie e se chiudo gli occhi sento l'odore del gel che mi mettevo per andare su a Vicomorasso e farmi bello. In “Non ci resta che il crimine - La serie” i protagonisti tornano indietro nel tempo per sistemare una serie di cose. Se potessi tu tornare indietro nel tempo per cancellare un errore passato, quale cancelleresti? Forse vorrei avere la consapevolezza di adesso. Magari confrontarmi un po' di più con mio papà, forte di alcune conferme che ho avuto e dell’aver relativizzato gli errori umani in generale. Quella roba lì mi piacerebbe. Ecco, potere essere allo stadio con mio papà e condividere quelle cose con più serenità. E poi, perché lui è mancato proprio poco prima della prima puntata di Zelig, avrei voluto fargliela vedere, non tanto per il successo che è arrivato, o forse anche per quello, ma per fargli vedere che c'è tanto di lui in quello che faccio e anzi, come comico lo ritengo una figura importante, guardo a lui come guardo a Guzzanti. Se potessi ancora viaggiare nel tempo, dove andresti? Ah beh, io sono un appassionato di Barbero, vedere il Medioevo sarebbe fantastico. L'epoca anche di Dante, vedere come la gente si relazionava. Avrei paura delle malattie. Ah, oppure lo scudetto del Genoa sarebbe interessante. Intorno al 1895 avrà vinto il primo, non lo so. La tua paura più grande qual è? Quella di scomparire, di non essere in grado di fare quello che faccio, di essere meno amato, quello è un motore forte per me. Che cosa pensi che gli altri dicano di te? Bah, senz'altro prenderanno per il c**o alcuni aspetti della mia fragilità, dell’arrovellarmi su me stesso. Spesso dicono che mi vogliono bene e mi fa piacere, che dovrei godermela di più forse. Invece che cosa ti piacerebbe che dicessero di te? Beh, ovviamente che apprezzassero l'aspetto professionale, umano e in egual misura una grandissima generosità. Mi piacerebbe anche essere una persona più informata sulle cose, più illuminata. Mi piacerebbe essere apprezzato come artista ed essere umano. Come tutti, insomma. Come è stato girare “Maschi Veri”? Siamo partiti due giorni prima per andare a Sperlonga, dove abbiamo girato e abbiamo fatto quello che si chiama bonding, per legarci. È bello poter raccontare l'amicizia maschile, un film a cui io sono affezionato di brutto è “Amici miei”. Ci sarà poi una seconda stagione. Il tuo personaggio, Mattia, è un po' bloccato, fatica un po' a prendere decisioni. Ti senti vicino a lui da questo punto di vista? Stiamo girando ora la seconda stagione. Un po' sì, però devo riconoscermi che quando poi è il momento di scegliere sono, credo, abbastanza determinato. Sento tanti pareri, ma dentro mi riconosco anche una certa determinazione. Poi di facciata faccio il buono malleabile, però… Sei uno a cui le cose scivolano addosso o invece che se la prende? Sono un rimuginatore che non ce n'è. Infatti immaginavo, se dovessi fare un film della mia vita, farei questa roba qua: io che cammino per strada, uno mi si scontra addosso mentre corre: “Chiedi scusa, almeno!”. Stacco; sera dopo con gli amici: “Oh, sto maledetto qua passa, mi si scontra, nemmeno mi chiede scusa”. Stacco; Capodanno 2038: “3 2 1! Buon anno… E sto str***o ragazzi non mi chiede scusa”. E poi: “Vuoi pentirti dei tuoi peccati? Sì, ma quello str***o non voleva chiedere scusa”. Ecco, se dovessi fare un micrometraggio della mia vita farei questo, si chiama “Il Rimuginatore”. Chiedo a dei registi se vogliamo girarlo insieme. Ma è bellissimo. Lo dovresti fare per promuovere un nuovo progetto. Chiami Maccio: “Il Rimuginatore”. Grazie, allora lo mettiamo. Quando la creatività si incontra… Non ho fatto niente, eh No no, grazie. Fare il tuo lavoro significa in qualche modo sottoporsi al giudizio degli altri, c'è una critica che ti ha fatto più male di altre? In generale un po' tutte quante. Ultimamente, durante un Capodanno eravamo tra amici e uno di loro, con sincerità, parlando di altri colleghi ha detto: “Loro recitano, fanno cabaret e cose per gli altri. Mauri è uno che lo fa per se stesso”. A un rimuginatore… Ah scusa, era il Capodanno di sei anni fa. E poi, un po' in generale, quando alcuni amici a cui tengo tanto dicono che dovrei essere un po' più selettivo, criticano un po' la mia bulimia per paura di scomparire, attribuiscono una scarsa lucidità alle scelte che faccio. Puoi rivivere un intenso momento di felicità. Quale scegliereste di rivivere? Mi viene in mente subito quando quel centro di aggregazione di cui parlavo prima ci portò, alla fine delle medie, in Francia, in questo cantiere internazionale dove c'era gente da tutte le parti del mondo. Noi venivamo da Sant'Olcese, quando andavamo giù a Genova e vedevamo le scale mobili era tipo Gardaland. Tu immagina con coetanei canadesi, americani, francesi, con un'apertura mentale, con loro a fare sia lavori manuali, sia teatro, in un villaggio in montagna dove non c'erano vere e proprie attività se non quella di socializzare, e ho capito che è stato il primo giro del mondo a 14 anni, mi ha spaccato il cervello. La cosa in cui sei bravissimo ma che nessuno sa, anche piccola. Il mio amico Kurt mi critica sempre e dice “Mauri è un disastro, a organizzare è tremendo”, mi massacra, le cose più belle che ho fatto dice che fanno ca***e, ma lo voglio come amico per quello. E dice: “Però, se ti trovi anche in un paese sperduto, in una situazione più di m***a che ti può venire in mente, con Mauri comunque te la cavi”. Se ti chiedessi una ragione per vedere la terza stagione di “Call My Agent”, ma in rima dantesca, ce la faremmo? Sì: Sarà per voi stagione sorprendente/spero dalla fine e dall'inizio/guardatevi o amici “Call My Agente”/un bacio da Lastrico Maurizio. Ottimo. Per chiudere ti chiedo di finire la frase: vorrei essere più… Sereno.

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Maurizio Lastrico: “Il mio biopic si chiamerebbe Il Rimuginatore”

Omar Schillaci