Pietro Faiella: “Da Sulmona a Shakespeare, il mio teatro è una leggenda che cammina”
Spettacolo
Dalla leggenda di un bambino febbricitante su un palco abruzzese fino alle vertigini di Shakespeare, Pietro Faiella racconta la sua vocazione teatrale come un rito laico, fatto di rigore, visioni, trasformazioni. In questa intervista ripercorre incontri decisivi, personaggi che bruciano, e l’arte del recitare come attraversamento del corpo e della parola, tra sacro e politica, sogno e materia
C’è chi sceglie il teatro e chi, come Pietro Faiella, viene scelto dal teatro. Con un carisma sottile e un rigore che sfiora la devozione, Faiella attraversa i linguaggi della scena, del cinema e della televisione portando sempre con sé il fuoco sacro dell’interpretazione. Ho potuto ammirarlo di persona in due prove attoriali memorabili (entrambe con la regia di Luca Ariano): nel Riccardo III, visione lisergica e febbrile del potere, e in uno Shakespeare in the box che lo ha visto indossare con potenza e fragilità la corona maledetta di Macbeth. In questa intervista racconta il suo primo leggendario debutto da bambino con la febbre a 39, il sodalizio con registi come Castri, Martone e Barberio Corsetti, il lungo lavoro sulla lingua del Bardo e la sua idea di attore come corpo pensante e visionario. Una conversazione densa, coltissima e piena di scintille.
Pietro, partirei chiedendoti: qual è stato il primo momento in cui hai capito che il teatro sarebbe stato il tuo destino?
“Sai, riguardo all’origine di quella che alcuni chiamano vocazione, c’è sempre, alla radice, una sorta di leggenda. La mia è questa: quando avevo dieci anni, era l’ultimo anno di elementari, con le maestre del doposcuola avevamo preparato una recita che avremmo rappresentato al teatro comunale della mia cittadina (Sulmona, in Abruzzo). È un teatro all’italiana, uno dei più belli della regione. La sera della recita però io ho la febbre a trentanove e mezzo. Sono steso nel letto e tremavo. Sento suonare alla porta, mia madre apre e parla animatamente, direi appassionatamente, con le due maestre. Le dicono che il mio ruolo l’ho studiato solo io, che non possono sostituirmi con nessuno (è un monologo di Celestino V dall’Avventura di un povero cristiano di Silone) e non sanno dove andare a sbattere la testa. Alla fine mia madre si convince, mi avvolgono in una coperta e mi portano, in braccio, fin sul palcoscenico. Indosso il saio del personaggio e, ricordo che si apre il sipario su questo enorme spazio in penombra mentre io in ginocchio recito la mia parte. Ma ho comunque la febbre e parlo con voce flebile, quasi tra me e me. A metà del monologo sento qualcuno dal terz’ordine di palchi che si sporge in fuori e grida ‘voce’. Io mi fermo, mi volto e cerco il volto di quel grido dentro quel ventre scuro pieno di pubblico, ma la vista è sfocata, intuisco solo sagome umane e un brusio indistinto. Allora torno al mio monologo tirandolo fino in fondo, fino all’applauso. Ecco, questo è stato il mio leggendario battesimo del palcoscenico. Ora potrei raccontarti invece un paio di episodi e incontri cruciali e illuminanti che mi hanno segnato e indirizzato ma credo che la leggenda superi il fatto storico e apra orizzonti di senso più vasti.”
Hai lavorato con registi iconici come Massimo Castri, Mario Martone, Giorgio Barberio Corsetti. Che cosa ti ha lasciato ognuno di loro, artisticamente e umanamente?
“Guarda, ogni incontro con un regista è la scoperta di un nuovo mondo. Questo vuol dire scoprire nuove modalità di lettura, di interpretazione, e alla fine, di un angolo visuale esclusivo di riflessione sull’etica artistica. I registi che mi hai nominato sono tre mostri sacri della scena contemporanea e con ognuno di loro il viaggio di scoperta è stato determinante, entusiasmante. Massimo, che ora non c’è più, è il regista con cui ho lavorato più a lungo e apparteneva alla generazione di Ronconi. Aveva profonde doti intellettuali e critiche, dettate dai suoi studi e dalle sue posizioni marxiste. Ecco, con lui la pratica scenica era abitata dal lungo percorso iniziale di analisi del testo, cosa che oggi, dico nelle produzioni attuali, è quasi del tutto sparita, almeno in quella modalità. Parlo della compagnia seduta attorno ad un tavolo, le prove a tavolino appunto, guidate dal regista che lavora allo smontaggio e rimontaggio del senso di quel che si legge e si rilegge, all’appropriazione profonda del testo e delle sue connessioni e relazioni. Questo percorso, con Massimo poteva durare anche venti o venticinque giorni. Il tempo di produzione per la messa in scena era allora superiore ail cinquanta giorni e lui ne dedicava tantissimi a questo lavoro di scavo critico. A volte, lo spettacolo era già montato, in piedi, sulla scena, se c’era qualcosa che non gli tornava, preferiva tornare a tavolino a rianalizzare il testo! Massimo mi ha trasmesso rigore, ecco.
Mario e Giorgio appartengono invece ad una generazione più giovane che ha fatto storia innovando e sperimentando visioni più libere, aprendo l’immaginario scenico alla contaminazione dei linguaggi. Non a caso Mario è anche un importante regista di cinema e Giorgio affronta da sempre esperienze trasversali tra opera, circo, danza. Il loro è un approccio meno ortodosso, non meno studiato ma sicuramente più istintivo, impressionistico. Sono molto attenti ad utilizzare momenti della narrazione costruendo spostamenti e spiazzamenti di senso, per rinnovarlo e attualizzarlo, nella ricerca continua di riflessione tra forma e contenuto che parli al presente. Mario e Giorgio mi hanno spalancato le porte sulla visionarietà e sul deplacement.”
Tutti e tre hanno un grande amore per l’attore. Un’attenzione misurata, sia per la recitazione, per l’artista, che per l’individuo, per il soggetto umano che si trovano di fronte. E proprio questa cura della persona e della relazione, la cura dell’altro, per me è stata una grande lezione, perché testimonia la consapevolezza dell’importanza e della centralità dell’attore nel loro teatro. È il segno di una bella sensibilità.”
Mi incuriosisce molto il tuo legame con Luca Ariano, con cui hai portato in scena Riccardo III e Macbeth, curandone anche la traduzione e l’adattamento. Che cosa significa per te lavorare su Shakespeare oggi in Italia?
“Quella con Luca Ariano è una avventura degli ultimi tre anni che però ha le sue radici in una amicizia trentennale. E come tutte le piante dalle radici forti e dalla fioritura tardiva ha prodotto infiorescenze sorprendenti e fuori dal comune. Poi, quando dopo tanti anni dalla semina vedi la bellezza dei frutti giunti a maturazione, capisci il senso di quel lungo essere restati in quiescenza, in attesa. Riccardo terzo è stata sempre una mia ossessione e quando Luca mi ha chiesto di sviluppare assieme il progetto di spettacolo si è innescato immediatamente un processo di trasformazione e di condivisione creativa che ancora oggi viaggia a gonfie vele. Luca è un regista e un produttore decisamente fuori dal comune, così come diciamo eterodosse, fuori dagli schemi, sono le sue richieste artistiche. Dopo Riccardo mi ha infatti proposto di lavorare sul Macbeth ed è stato un viaggio entusiasmante. E come sai, entrambi gli spettacoli vivono e viaggiano ancora nonostante le dimensioni da teatro stabile di entrambi i progetti.
Lavorare su Shakespeare è un evento fortunato, ovunque questo accada. Sia come attore che come traduttore/adattatore. Nel secondo caso hai il privilegio di risalire alla sorgente della lingua, della sua musicalità, della forza delle metafore, di vedere le stratificazioni storiche che la drammaturgia di Shakespeare contiene e le sedimentazioni poetiche soprattutto degli autori latini che riemergono con una forza sempre rinnovata. È un lavoro solitario ma entusiasmante. Mentre ero alla tastiera a correggere, confrontare e ricorreggere, mi capitava di sollevare la testa e ritrovarmi addosso un sorriso di gioia. Mi dicevo che era una fortuna fuori dal comune avere a che fare, per lavoro, con un materiale così ricco e stimolante.
Come attore invece Shakespeare ti mette davvero alla prova non solo per il continuo slittamento tra intensità psicologica e densità di linguaggio metaforico ma perché ti obbliga, soprattutto nel caso di Riccardo III e Macbeth, a confrontarti con personaggi che hanno una storia interpretativa impressionante. Personaggi che hanno attraversato e percosso le corde vocali, i vasi sanguigni e gli organi vitali di intere generazioni di grandi attori e tu ti trovi ora di fronte ad un’impresa. Devi scalare la montagna. Con le tue forze e con le tue capacità certo, ma inserendoti, volente o nolente, consapevolmente o meno, dentro la via di arrampicata già toccata da colossi del teatro. Questo vuol dire grande responsabilità, senso della misura e della dismisura ma anche offerta di sé. Abbandonarsi al bardo, nel senso di poeta cantore, Shakespeare, ma anche nell’altro significato, orientale, di farsi ponte, mediatore tra stati dell’essere diversi. Carmelo Bene diceva: l’attore soffre, soffre con l’apostrofo.”
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Tra teatro, cinema e tv, hai attraversato linguaggi diversi, da Makari a Supersex fino a 'Sulla mia pelle'. Come cambia il tuo approccio quando passi dal palcoscenico al set?
“Paolo Conte, in una strofa di ‘Anni’ dice testualmente: - Il teatro ha recitato sulla mia faccia i personaggi che voleva lui e non volevo io… Più lieve e superficiale, invece il cinema ha detto: per favore… Silenzio, si gira: Sono tuo, tu sei mia… - Ho l’impressione che questi versi bellissimi ma un poco criptici contengano una grande verità di fondo.
Il teatro reclama, con i suoi codici e la sua inevitabile immanenza, uno sforzo di astrazione e di distillazione unici. La sua richiesta è sempre quella di portare l’interpretazione ad un segno di efficacia che raggiunga il pubblico proprio ‘perché è imparagonabile con la vita e cioè puro da ogni scoria psicologica particolare’. Questa frase è di Roberto Longhi e la usa nella Breve ma veridica storia della pittura italiana per definire la danza quasi irreale, in equilibrio tra rigore e poeticità nel tratto pittorico di Botticelli. A partire da qui, la strada diventa per me sempre quella di affinare il personaggio attraverso un processo simbolico.
Il cinema invece, nella sua fredda tecnica obiettiva, nel suo sguardo inesorabile attraverso la macchina da presa, chiede l’intimità. La vicinanza di te con te stesso, con qualcosa che sia profondamente tuo, l’identità, la tua verità personale, calda e vaporosa che impressioni di luce la strumentazione e si trasformi in qualcos’altro. È un incantesimo ex machina che si impossessa di ‘attimi’ di vita fissandoli per sempre. Può far paura, come lo sguardo di Medusa.
Direi quindi che in entrambi i casi, teatro e cinema, per me si tratta di avere a che fare con la gestione dell’emozione. E l’emozione riguarda sicuramente l’idea e la costruzione del personaggio ma più decisamente la sfera emozionale personale. I timori, le ambizioni e le speranze, gli smarrimenti e così via. Recitare, in tutti i casi, vuol dire saper preparare per bene il cocktail di pulsioni immaginarie e di reazioni fisiologiche reali dell’istante. È l’immaginifico sguardo interiore del visionario miscelato col battito cardiaco in accelerazione, contestuale all’alterazione della sudorazione.
Qualcuno, non mi ricordo chi, forse un antico maestro, diceva che recitare è impossibile”.
Il teatro in Italia, oggi, vive una fase complessa ma anche piena di fermento. Qual è, secondo te, il ruolo del teatro in questo momento storico?
“In questo momento c’è in atto una ridefinizione di poteri all’interno del sistema teatro in Italia. Parlo della parte gestionale ed economica che si riflette però inevitabilmente su quella artistica. Il clima è molto acceso ma contrariamente al catastrofismo di certe analisi critiche, alcune fondate, altre meno, credo che questa lotta metta la lente sulla centralità nella vita politica di un paese.
Il teatro richiede presenza fisica, condivisione, partecipazione attiva. È impegnativo. Non è un piatto consegnato a domicilio. Occorre alzarsi, vestirsi, andare verso, entrare, guardare, confrontarsi col vicino, resistere tutto il tempo della rappresentazione. Approvare, disapprovare, discutere. Non è solo appagamento del gusto estetico o del desiderio di intrattenimento, è esercizio della democrazia. Questo è o dovrebbe essere il suo ruolo. Dovrebbe essere un rituale di cittadinanza, e andrebbe incentivato l’ingresso dei privati nel finanziamento del teatro. Non come investimento per il profitto ma come libera erogazione per il prestigio del fatto in sé. Del resto nella Grecia del V secolo, dove il teatro è nato, era sì lo stato a scegliere i testi e ad organizzare i grandi festival, ma era il corego, un cittadino ricco diciamo, che finanziava la produzione dello spettacolo. E la sua soddisfazione non veniva dall’incasso dei biglietti (tra l’altro lo stato pagava l’ingresso ai meno abbienti) ma dall’apprezzamento che il pubblico esprimeva per la rappresentazione. Ma sto partendo per la tangente. Insomma: andate a teatro!
Se potessi scegliere un ruolo che non hai ancora interpretato, quale personaggio ti piacerebbe portare in scena o sullo schermo?
“Sceglierei un regista di cinema, giovane e visionario, assieme al quale scrivere una storia folle e appassionata, divertente, spiazzante e piena di colpi di scena incentrata su un personaggio che condensi nelle sue corde lo spirito di due registi per me imprescindibili: Woody Allen e David Lynch.
In alternativa mi piacerebbe interpretare Ulrich, il protagonista dell’Uomo senza qualità di Musil con la riscrittura e la regia del regista rumeno Radu Jude. Oppure un biopic su Totò.”
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Oltre al lavoro, cosa nutre la tua creatività? Libri, musica, viaggi?
“Sì, la lettura sicuramente. Sono un lettore infaticabile, voracissimo, insopportabile anche a me stesso. Fin da prima dell’avvento della rete mi dedico alla pratica dell’ipertesto. Già quando da ragazzo frequentavo per ore la Feltrinelli per leggere i libri che non potevo permettermi di comprare, se incappavo in una nota che rinviava ad un altro libro, mi mettevo subito in cerca del nuovo volume per verificare il suggerimento. E così via. Di scaffale in scaffale, libro dopo libro. In questo modo ho attraversato e continuo ad attraversare, sostanzialmente in maniera selvaggia, voglio dire senza il metodo dello studioso serio, pagine e pagine di tutto. Non ho generi di riferimento. Posso scegliere un romanzo, una biografia, naturalmente testi teatrali o di cinema, di scienza, di matematica, antropologia, psicanalisi e così via. Forse l’economia mi vede un poco in difetto, ma se l’avessi frequentata di più non avrei speso tutto quel tempo a leggere. Battute a parte: leggere, leggere, leggere. Dovunque e su ogni supporto. Cartaceo, schermo di iphone e Mac, Kindle, targhette dell’ascensore (come dicevano Elio e le storie tese), scritte sui muri, cartellonistica, tutto.
La musica è il primo amore, diciamo mancato, sì, perchè volevo diventare un chitarrista jazz e non ce l’ho fatta, ma avevo iniziato tardi a studiare lo strumento, a quindici anni, e mi è mancato il grip ed ho lasciato il sogno a mezz’aria. Le note però mi accompagnano sempre e il mio rapporto con la recitazione ha una natura sinceramente musicale, corpo e voce in fondo sono strumenti. Eppure non ascolto musica di continuo. Quando guido, tantissimo, tra Rai classica e Virgin radio, dipende dai momenti. Durante il covid ho seguito un corso semestrale di storia della musica dell’università di Yale, entusiasmante. Recentemente, ho letto una biografia di Beethoven e regolarmente, dove incontravo la citazione di un suo brano, e sono tanti, mi fermavo e andavo ad ascoltarlo su YouTube, seguendo, per quel che riuscivo, grossolanamente, lo spartito. È stata un’esperienza decisiva, una discesa mozzafiato dentro il laboratorio del genio. Ma mi pare di dire banalità. Davanti a certe vette bisogna solo stare zitti e ascoltare la danza delle note.
Viaggiare non è il mio forte. L’ho fatto, poco, e mi piacerebbe farlo di più ma deve esserci una struttura antropologico culturale che mi rende stanziale. Spesso, per gioco, e per auto assolvermi da questa mancanza, mi piace citare Flaiano (ecco, il citazionismo è un’altra delle mie passioni, anzi affezioni, da cui vorrei liberarmi): di tutti i miei viaggi in giro per il mondo nessuno è paragonabile a quello fatto di notte, al buio, tra la camera da letto e la cucina, in cerca di un bicchiere d’acqua. Più o meno diceva così.
In aggiunta ai tuoi tre esempi per me c’è la pratica della manualità: riparare, smontare, costruire e inventare oggetti. Avere a che fare con la materia, con le stoffe, i collanti, gli attrezzi di piccolo artigianato, viti, bulloni, chiodi, ago, filo, vernici, fogli di carta, matite, disegnare, ideare e realizzare pseudo opere d’arte. Il mio sogno è avere un laboratorio dove essere falegname, fabbro, elettricista, idraulico o artista diventi solo il pretesto per scatenare tutte le scintille che nel mio rapporto con i materiali accendono l’immaginazione.”
Stai lavorando a nuovi progetti? Cosa puoi anticiparci sui tuoi prossimi impegni a teatro o sullo schermo?
“Questa sarà un’estate intensa. A fine luglio, in un festival molto interessante a Pomigliano D’Arco (I nostri miti) porterò di nuovo in scena Secondo Giuda, il mio monologo adattato dal romanzo La Gloria di Giuseppe Berto. Un grande scrittore che ho avuto il piacere e la fortuna di poter adattare per la scena. Secondo Giuda è una confessione appassionata e lacerante dell’apostolo del tradimento alimentata dal dubbio e dal tormento. E racconta la vicenda evangelica in un’ottica del tutto inedita.
A fine agosto curerò la lettura/mise en espace di un progetto scritto da me legato al poeta Ovidio in un luogo molto affascinante e poco conosciuto: il Museo delle Navi romane, a Nemi, ai castelli romani. A settembre una lettura su Pasolini e finalmente, ai primi d’ottobre torneremo in scena col Macbeth che debutterà ufficialmente a Roma. E per concludere la trilogia in the box, Luca Ariano ha già in cantiere un nuovo Shakespeare, di cui sto scrivendo traduzione e adattamento.
Infine, e qui saltiamo nel cinema o comunque nel mondo del visuale, sono riuscito a dare concretezza a un progetto di film/doc sul Riccardo III. C’è un regista esperto, un produttore, e stiamo definendo la scrittura e l’entità produttiva dell’intera operazione. “
Cosa ti emoziona ancora, oggi, quando sali sul palco o entri in un set?
“A teatro sempre ancora l’incontro con l’imprevedibile. Per quanto uno spettacolo sia stato provato e lo si possieda, lo sguardo del pubblico è un momento decisivo e l’esposizione all’altro altera il respiro, i pensieri e le vibrazioni interne. Una volta avevo la sensazione che il pubblico, in un teatro grande o piccolo non importava, fosse una sorta di leviatano pronto a sbranarmi. Oggi non è più così, anzi riesco a leggere la corrente che passa tra chi osserva e ascolta e chi si offre sul palco, riesco ad interpretare le variazioni, positive o negative, dei fremiti e delle scosse che attraversano lo scambio rituale. E questo riesce a mettermi in contatto con gli obiettivi che si trovano alla radice dell’evento teatro e della sua liturgia.
La ritualità del set è invece completamente diversa e per me inizia con l’auto che viene a prenderti e si conclude con quella che ti riporta a casa. In mezzo c’è l’emozione continua, e in continua variazione, dell’incontro con tante persone che lavorano per il film, il trucco, i costumi, gli organizzatori e gli assistenti che si prendono cura degli attori, fino al culmine che è il ‘siamo pronti per girare’ e le parole del regista, a volte le urla dell’aiuto regia, la scena da girare che per quanto provata è comunque un’improvvisazione, una ricerca dell’instante. In fondo l’emozione per me è entrare in questa grande macchina produttiva che è sempre piena di vita, euforica, e quindi sempre meravigliosa.”
C’è un celebre aneddoto che racconta di Laurence Olivier esasperato dalle continue crisi di Dustin Hoffman sul set, in pieno metodo Stanislavskij, che gli disse: 'Giovanotto, non potrebbe semplicemente recitare?'. Tu, Pietro, a chi ti senti più vicino tra i due, e come vivi il rapporto tra tecnica, istinto e verità nella recitazione?
“Se parliamo di teatro io mi sento profondamente diderottiano, sempre sulla soglia tra tecnica e controllo dell’emozione. È il Paradosso dell’attore, no? Del resto come sarebbe possibile, umanamente, scendere nell’identificazione completa col personaggio, mantenerla per due o tre ore di seguito e questo per mesi di turné? Sul set forse, un abbandono a degli stati di possessione potrebbe anche accadere. Dipende dal tempo a disposizione e dalle condizioni in cui vieni messo. La macchina da presa è pronta a cogliere l’emozione vera dell’attore, ma per quel che mi riguarda credo si tratti comunque di affinamento del dialogo tra le capacità tecniche e l’interiorità dell’interprete”.
Hai firmato la regia e la sceneggiatura di un film con Paolo Musio, Com’è stata questa esperienza dietro la macchina da presa e come ha arricchito il tuo sguardo di attore?
“Ho raccolto per anni materiali psichiatrici e di cronaca legati alla pedofilia. L’interesse era nato grazie ai racconti di una persona a me molto vicina, ora non c’è più, che aveva subito abusi. La cosa mi aveva molto scosso e nel tempo ho utilizzato quei materiali per scrivere un monologo teatrale. La confessione di un pedofilo, tra seduta psicanalitica e spietato confronto con se stesso, che apre una voragine sulla nostra capacità di giudizio. Come condannare un abusatore che racconta la sua terribile storia di abusato? L’indecidibilità mi è sembrata molto interessante. Ma i pochi registi a cui mi sono rivolto per un’ipotesi di messa in scena del testo hanno declinato l’offerta dicendomi che nessuno avrebbe prodotto una cosa del genere. Poi ho avuto l’idea di farne una specie di mockumentary ed ho chiesto a Paolo Musio, che è un amico oltre che un attore straordinario, di leggere il testo. Lui mi ha dato la sua disponibilità a mettersi alla prova con un personaggio così controverso e allora siamo partiti. Mario D’Angelo, co-produttore del film, ha curato la fotografia e mi ha dato una grande mano organizzativa. Paolo ha avuto più di un mese per prepararsi, abbiamo parlato spesso dei punti cruciali della confessione, poi siamo passati all’azione. Ho messo a disposizione di Paolo una giornata e un luogo. Lui era il soggetto del film e doveva concederci l’intervista. Il tempo e la modalità l’avrebbe decisa lui. E così è stato. Quel che è venuto fuori è un prodoto estremo, nella forma e nel contenuto, che ha subito colpito i selezionatori del Biografilm festival di Bologna. Pensavano avessi scovato e intervistato un vero pedofilo. Quando gli ho detto che era un attore è cambiato tutto e il film è diventato un ibrido tra verità documentaria e finzione. È stato presentato in streaming durante il festival ed ho ricevuto molti apprezzamenti, soprattutto da parte di psicologi e criminologi. Molti invece hanno reagito con distanza, dicendomi che era inammissibile dare parola ad un soggetto del genere. Sarei curioso di vederlo proiettato in sala, potrebbe suscitare reazioni controverse. Un mese fa è stato acquisito da una piattaforma americana, Fawesome, ed è a disposizione da loro gratuitamente. Unsetting, questo il titolo del film, lavora sull’instabilità emotiva, dell’immagine e dell’attore. Non è illustrativo e non si lascia afferrare. Mi ha insegnato che si può evitare la rappresentazione, disorganizzandola. Evitando di spiegare si può generare una grande apertura verso l’esterno.”
Infine, Vittorio Gassman diceva: 'Un attore vero non si vaccina contro il bacillo istrionico; lo coltiva invece e ne sfrutta l l’irrazionale virulenza fino a farlo esplodere nella pestilenza metaforica di cui parla Artaud.' Sei d’accordo con questa visione?
“Non so, istrione non è diventato un termine un po’ negativo? Oggi, nell’epoca del performer, rimanda forse ad una teatralità esagerata, esibita. Se parliamo invece di una necessità alla quale non si può sfuggire, sono d’accordo. Perché se l’esperienza è viscerale, questo ‘bacillo’ contagia necessariamente l’attore spingendolo sulla soglia di quel processo di trasformazione che per Artaud è superamento di sé, crisi, taglio. E per quel che mi riguarda è il corpo, il corpo e ancora il corpo il centro di tutto. Il luogo irriducibile dove si trova la presenza, il motore, il filo conduttore, l’anima del discorso. E come dice Walt Whitman in Canto il corpo elettrico: e se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe?