Giornata del Teatro, Davide Livermore: “Il bene più importante del nostro Paese”

Spettacolo
Chiara Ribichini

Chiara Ribichini

Foto: Michele Pantano

Il regista, tra i più importanti al mondo, e direttore del Teatro Nazionale di Genova racconta a Sky Tg24 la sua versione dell’Orestea di Eschilo. Uno spettacolo che ha incantato il capoluogo ligure e che arriva ora al Carignano di Torino. E al Teatro alla Scala è in scena Les Contes d’Hoffmann con la sua regia. Lo abbiamo incontrato in occasione della Giornata Mondiale del Teatro. L’INTERVISTA

“A che cosa serve il teatro oggi? Esattamente a questo, ad essere il bene, uno dei beni più importanti del nostro Paese. E questo ci viene riconosciuto da tutto il mondo”. Lo sottolinea Davide Livermore, regista e direttore del Teatro Nazionale di Genova. Torinese, con una lunghissima carriera che lo ha visto anche firmare quattro prime del Teatro alla Scala di Milano, un record storico, Livermore è tra i più importanti registi teatrali al mondo ed è conosciuto per l’uso innovativo di nuove tecnologie e per i riferimenti cinematografici che spesso caratterizzano i suoi lavori. Lo abbiamo incontrato in occasione della Giornata Mondiale del Teatro a Genova, nel Teatro Ivo Chiesa in cui ha portato in scena la sua versione dell’Orestea di Eschilo, unica trilogia tragica del teatro greco antico giunta sino a noi nella sua completezza. Un progetto ambizioso, nato dalla collaborazione tra l’INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico e il Teatro Nazionale di Genova,  che ha pienamente convinto il pubblico, rimasto affascinato da uno spettacolo di 4 ore e mezza che, dopo Genova, arriva al Teatro Carignano di Torino (dal 28 marzo al 6 aprile). Uno spettacolo con i video D-Wok, che alludono a oscuri presagi o terribili fatti di cronaca, gli splendidi costumi firmati da Gianluca Falaschi che rimandano agli anni Trenta e Quaranta, le musiche originali di Mario Conte e Andrea Chenna, le luci di Marco De Nardi.
Tra gli interpreti principali: Laura Marinoni, Sax Nicosia Giuseppe Sartori, Gaia Aprea, Olivia Manescalchi, Stefano Santospago, Anna Della Rosa, Giancarlo Judica Cordiglia, Linda Gennari e Maria Grazia Solano.

50 metri quadrati di ledwall, una parete a specchio, 40 artisti in scena, 20 tecnici, 4 ore e mezza di spettacolo per portare in scena l'Orestea di Eschilo. Una vera e propria maratona, miniserie, in kolossal… Come vogliamo definirla?
"La più grande saga dell'antichità, l'unica trilogia che è arrivata ai nostri tempi nella sua completezza. Stiamo parlando di uno dei testi fondamentali per il nostro senso di giustizia e di comunità. L’Orestea ci insegna che per fare veramente il nostro dovere come esseri umani dobbiamo imparare ad elevare la nostra anima oltre quelli che sono i brutali, automatici e facili sensi di vendetta, oltre quel desiderio di ripagare il sangue col sangue che ha attraversato e continua ad attraversare la nostra storia”.

 

L’Orestea è stata scritta nel 458 a.C. Qual è il messaggio che arriva oggi?
La tragedia a mio avviso non deve mandare dei messaggi ma deve creare una tale immersione nel rito per cui per la gente diventa automatico sentirsi insieme, in una comunità, e celebrare una delle idee più straordinarie che l’Orestea porta con sé che è il concetto di giustizia.

 

Conosciamo la funzione sociale, politica e civica che aveva il teatro nell’antica polis. E nella nostra società che ruolo ha?

Le persone hanno bisogno di emozionarsi e qui, nell’hic et nunc teatrale, riescono a provare qualcosa che non è possibile sentire da nessun’altra parte. Nessun impianto stereo, neanche il più sofisticato, potrà mai valere di più di quello che qui riusciamo a realizzare per far vivere il rito dell’Orestea di Eschilo e quello della tragedia greca.

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Eschilo è stato il primo a introdurre il secondo attore e a rendere il dialogo centrale nella narrazione…
Ma non solo! Ha inventato delle macchine sceniche straordinarie. 2456 anni fa Eschilo, che interpretava la parte di Clitemnestra, moriva fuori dalla scena e poi attraverso una piattaforma, che non veniva toccata da nessun tecnico, veniva portato avanti verso il pubblico, fino all’orchestra. Questo era possibile grazie alla grande tecnologia navale che aveva sul palcoscenico qualcosa che il teatro ha sempre rappresentato: un luogo di grande sperimentazione tecnologica.

 

Lei ci ha abituato, nelle sue regie, all'uso di riferimenti cinematografici. A cosa si è ispirato in questa sua versione dell’Orestea?
Le racconto una delle cose che mi ha più emozionato a Siracusa due anni fa, quando ho portato in scena appunto la trilogia di Eschilo. Ero nel mercato, un signore che stava vendendo olive e sottaceti mi dice: “Senta maestro ma ho saputo che lei non la fa morire a coltellate vero?” E io: “A chi?”. “A Clitemnestra” risponde. “No la faccio morire avvelenata su un divano” gli spiego. Il signore si ferma e mi dice: “Luchino Visconti?".

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Questa sfera che vediamo sul palcoscenico cosa rappresenta?
Tante cose. Racconta del sole, dell’eliocentricità di un regime di tirannide. Della deflagrazione di un sistema non democratico. Rappresenta nella sua trasformazione in un occhio quella che è la fuga di Oreste. Che è un po’ quello che abbiamo imparato dalla psicanalisi: possiamo provare a scappare tutta la vita ma di fatto le nostre Erinni personali, il nostro super io, è una grande pupilla che è qui, dietro di noi, e che non ci mollerà mai.

 

Cosa resta della mimesis e della katharsis ton pathematon aristotelica?
Eh… bisogna venire a vedere cosa succede alla fine dello spettacolo (sorride, ndr). 20 minuti di applausi, pubblico in piedi che dopo aver visto e ascoltato le parole straordinarie di Eschilo nella bellissima traduzione di Walter Lapini.

 

Lei ha diretto quattro prime consecutive del Teatro alla Scala, un record. Proprio in questi giorni è in scena al Piermarini Les Contes d’Hoffmann, un suo spettacolo in cui ha utilizzato una forma antica di teatro, il teatro d'ombra...

Hoffmann è l’opera dell’illusione dell’amore e cosa c’è di più illusorio di un’ombra che si modifica, che cambia? Non c’è niente di più struggente del raccontarci una dimensione onirica in cui noi proiettiamo desideri, proiettiamo il volto dell’amore desiderato su un volto reale. C’è un grande gioco che il teatro d’ombra ci aiuta a fare, così struggente, così onirico, così capace di fare una cosa che spesso il pubblico a teatro non sa più fare: andare a commuoversi e a divertirsi per quella parte infantile in cui siamo toccati perché ci ha toccato la prima volta in cui siamo andati a teatro e ci siamo detti che questo è un posto per cui vale la pena vivere.

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