L'evoluzione ai tempi di Trump

La teoria dell’evoluzione un cantiere in continuo cambiamento e in cui nulla è frutto del caso. Parola di Telmo Pievani, ordinario a Padova di Filosofia delle scienze biologiche ed evoluzionista che in occasione dell’anniversario della nascita di Darwin racconta la sua visione sul padre dell’evoluzione e sulla scienza che ci circonda e sui timori per le conseguenza della nuova politica sanitaria di Trump di cui anche in Italia – dice – pagheremo le conseguenze. La teoria dell’evoluzione di Darwin ha un secolo e mezzo. Perché ne parliamo ancora oggi, cosa resta da scoprire? Ancora molto e già questo è piuttosto sorprendente, se pensiamo che lui era un naturalista dell'Ottocento che aveva dati molto più poveri rispetto a quelli che abbiamo noi. Non sapeva niente di cromosomi, di geni, di biologia molecolare, eppure ha avuto una capacità osservativa e un metodo che poi è quello che lo rende attuale ancora oggi. Noi facciamo i Darwin Day, non per nostalgia o per attaccamento, ma perché è una figura scientifica particolare. Darwin fu un grande analitico, un grande osservatore di dettagli, perché poi l'evoluzione è fatta di tante diversità individuali, di specie. Ma poi da quelle osservazioni riuscì a trarre una teoria molto generale che abbraccia i fossili, quindi fenomeni che risalgono a milioni di anni fa, ma anche quello che accade in un laboratorio, in un batterio, oppure quando un virus ci attacca e ci fa ammalare quella dinamica e una dinamica darwiniana. Riguarda, quindi, scale temporali e fenomeni molto diversi tra di loro: una grande impresa conoscitiva che naturalmente poi deve essere aggiornata, quindi resta ancora tantissimo da scoprire. Ma Darwin ha sbagliato qualcosa? Darwin ha commesso degli errori, naturalmente. Per esempio, era convinto che l'evoluzione fosse sempre un processo molto lento e graduale ma oggi sappiamo che non è così. Era però anche un autore piuttosto pluralista mentre alcuni darwiniani successivi sono stati, come capita spesso, più rigidi del maestro. Lui in realtà fu molto flessibile, già diceva che avremmo trovato altri fattori oltre alla selezione naturale per spiegare il cambiamento, perché poi l'evoluzione è una teoria del cambiamento. Oggi questa teoria si può applicare anche alle tecnologie, alla cultura, non soltanto alla biologia. Quindi, diciamo che è un cantiere aperto e si continuano a scoprire cose nuove. Però tutto sommato il nucleo, il nocciolo esplicativo, è ancora quello che lui capì alla metà dell'Ottocento. Rubando un termine caro alla fisica, possiamo dire che quella di Darwin è un po’ una teoria del tutto? Dal punto di vista della biologia sì. Però dobbiamo sempre specificare che la teoria dell'evoluzione riguarda un dominio della realtà, qualcuno dice che può spiegare anche l'evoluzione delle stelle o quant'altro, ma sono un po’ speculazioni. Darwin spiega come un organismo vivente portatore di un materiale genetico, diremmo noi oggi, evolva, cioè cambi nel tempo. La bellissima idea dell'albero della vita: sulla terra tutti gli organismi viventi sono imparentati tra di loro, senza eccezioni, quindi siamo tutti cugini, noi umani, con i lombrichi, con le piante, con tutti gli animali, con gli altri mammiferi. È un messaggio di fratellanza, anzi, di cuginanza universale. Facciamo tutti parte, come scrisse Darwin nei suoi taccuini, di un'unica grande rete, di un unico grande sistema e questo forse faremmo meglio a ricordarlo un po’ più spesso quando pensiamo a come devastiamo la natura in questo momento. L'estinzione delle specie lui non vide, per sua fortuna, non fece in tempo a vedere poi lo scempio che abbiamo commesso soprattutto dal ‘900 in poi e potando molti rami dell'albero della vita. Professore, il filosofo Leibniz diceva che viviamo nel migliore dei mondi possibili, perché fondamentalmente fatto come voleva Dio. Il mondo che abbiamo oggi è l'unico possibile? No, quello che ci insegna l'evoluzione è proprio qualcosa di diverso da quello che sosteneva Leibniz. Lo ha preso in giro anche Voltaire, nel Candide dove Pangloss immagina che il mondo sia governato da una provvidenza e quindi che anche le cose più brutte e orrende abbiano un senso. Invece Darwin ci insegna che l'evoluzione avrebbe potuto benissimo prendere tante altre direzioni. Noi diciamo che è un processo contingente, che non vuol dire che è casuale come un lancio di dadi. Contingente vuol dire che ci sono delle ragioni per cui le cose sono andate così ma non sono sufficienti per renderlo l'unico tracciato possibile. Cosa sarebbe potuto andare diversamente? Se quel famoso asteroide, 66 milioni di anni fa, non avesse colpito la terra ma l'avesse solo sfiorata, sicuramente l'evoluzione avrebbe preso un'altra direzione e oggi forse ci sarebbero specie di grandi rettili intelligenti che dominano il mondo. Quindi questa è la contingenza, l'idea che molto spesso nell'evoluzione, un evento singolo, come capita anche nelle nostre esistenze, può far portare la traiettoria della nostra vita in un binario imprevedibile. Per esempio, noi oggi sappiamo che la specie umana non è l'unica che è esistita, ma che ci sono state tante specie umane diverse è la nostra è l’ultima sopravvissuta, ma non sappiamo nemmeno bene perché. Darwin ci insegna che non bisogna mai usare il presente per ricostruire il passato, non bisogna mai usare il passato per giustificare in modo ideologico, il presente, come se fosse l'unico possibile. Noi questo purtroppo lo abbiamo fatto tante volte, no? Tante ideologie hanno cercato di usare il passato per dire che il loro presente era l'unico, vero, necessario. Darwin invece ci insegna che il passato era pieno di possibilità, ne abbiamo esplorate e altre no. Era pieno di mondi possibili che avremmo potuto esplorare. Proprio “Tutti i mondi possibili” si intitola il suo ultimo libro che racconta la storia di un’importante e generosa scienziata per cui fu fondamentale l’incontro con un grande libro come “La biblioteca di Babele” di Borges. Lì c'erano tutti i libri possibili, la protagonista del suo libro si dedicata invece a tutti gli enzimi possibili… Sì, è una bellissima storia che mi ha colpito molto. Una storia al femminile, una storia di una donna che, lo diciamo subito, va a finire bene, perché ha vinto recentemente il Premio Nobel per la chimica. Ma è una storia accidentata, difficilissima, perché non le ha creduto nessuno per tanti anni, non le hanno dato una posizione stabile in università per vent’anni, è stata precaria con tre figli, insomma, una storia comunque anche drammatica sotto il punto di vista personale. Lei, Frances Arnold, usò Darwin in modo creativo, perché sostanzialmente ebbe l’idea di fare con gli enzimi quello che gli allevatori e i coltivatori fanno con le piante e con gli animali: selezionarne alcuni, farli riprodurre, scegliere i caratteri, le mutazioni, che ci interessano di più. Usò queste proteine fondamentali per la vita che sono i catalizzatori che favoriscono le reazioni chimiche grazie alle quali noi viviamo. La cosa bella, appunto è che si lascia ispirare da un'opera letteraria, da un capolavoro del 1941, “La biblioteca di Babele” in cui Borges immagina un alfabeto di 25 caratteri con tutti i libri che si possono scrivere combinandoli liberamente fra loro. Viene fuori una biblioteca enorme e dentro questa biblioteca ci si perde, dice Borges, perché solo pochissimi libri sono quelli che hanno un senso, tutti gli altri sono rumore. Questa grande chimica e biotecnologa, Frances Arnold, ha quindi l’idea di trasporre questa metafora negli enzimi, che è davvero una buona idea, perché gli enzimi sono come dei libri. Sono scritti in un alfabeto, che è quello degli aminoacidi, sono 20 anziché 25, ma non cambia niente. È appunto con questo metodo darwiniano che si chiama evoluzione direzionata degli enzimi, scommette di riuscire a navigare nella biblioteca, di scoprire dei libri, cioè degli enzimi, che l'evoluzione ancora non ha mai scoperto. Non le crede nessuno perché è un metodo proprio anti-paradigmatico, l'opposto di quello che pensavano tutti gli scienziati alla sua epoca. Quindi la screditano, non le pubblicano gli articoli, ma lei tenacemente va avanti con questa idea. Finché una quindicina di anni fa scopre i primi enzimi. Vincerà il Premio Nobel e oggi quando andiamo al supermercato e compriamo un detersivo, di quelli green che non inquinano, i cosmetici green, i biocombustibili ma anche vaccini e farmaci, ecco molti si fanno con gli enzimi di Frances Arnold. È una bella storia di scienza e anche del potere dell'immaginazione nella ricerca scientifica. Citando una famosa poesia di Robert Frost quante volte la scienza, per riuscire ad affermarsi, deve prendere la strada meno battuta? Prendere la strada meno battuta è un principio metodologico fondamentale nella scienza. Uno dei miei maestri, Luigi Luca Cavalli-Sforza, che è stato un grande genetista italiano, mi diceva sempre questa cosa: “guarda, se vedi che c'è un sacco di gente che sta lavorando su un problema, tu stanne alla larga perché evidentemente è già troppo coltivato, cerca dei problemi dove c'è poca gente che ci lavora e che ti sembrano promettenti.” Quindi strade laterali accidentate, lui ha sempre fatto così nella sua vita e adesso ci sono migliaia di ricercatori che lavorano sulle sue intuizioni. Il problema è che naturalmente coltivare strade laterali non è facile. Per esempio, devi sottrarti al tuo capo del laboratorio che vuole che tu lavori su quelle domande di ricerca già mainstream, sulle quali sai già che farai magari piccoli avanzamenti, però sei sicuro che li farai. Invece la strada accidentata di Frost è un percorso in cui 9 volte su 10 non arrivi da nessuna parte, quindi è molto rischiosa. Però il punto qual è? È che quella volta che invece trovi qualcosa di nuovo, quelle sono sempre scoperte eccezionali. Quindi conviene rischiare? Per permettersi di rischiare la scienza deve essere ben finanziata, in modo da coltivare comunque le linee sicure e poi dedicare un po’ del tempo e delle risorse anche a strade cosiddette di ricerca pura, disinteressata. Deve essere una scienza che non ha troppa fretta, perché ci vuole tempo per esplorare le strade laterali e magari che non chieda, per fare carriera, di avere soltanto sempre dei paper tutti uguali in fotocopia. Però la situazione attuale nella scienza non favorisce tanto questo modo “Serendipitytoso”, cioè più esplorativo di fare ricerca. Noi italiani peraltro siamo tradizionalmente siamo forti esattamente in questo tipo di ricerca, noi non abbiamo mai fatto la scienza muscolare, quella con miliardi di dollari e non abbiamo mai avuti grandi attrezzature. Noi siamo famosi in tutto il mondo, perché invece siamo quelli che si fanno le domande giuste, usano le grandi strutture degli altri, ma sono quelli che poi fanno le scoperte. Quindi dovremmo coltivare, ancora di più questa tradizione scientifica italiana. Col Covid è esplosa, complici anche i social, la divulgazione scientifica. Spesso a parlare sono persone competenti ma non sempre è così. Qual è la responsabilità di un divulgatore scientifico? Beh, questa è una grande sfida dei prossimi anni. La pandemia e stato uno choc anche all'interno della comunità scientifica, perché non tutti erano preparati a essere in televisione o sui social tutti i giorni con quel grado di ansia, con quelle domande continue. Sono stati commessi tanti errori, sono state fatte previsioni che non andavano fatte, a volte sono state indicate come certe delle conclusioni che certe ancora non erano. Fare divulgazione è difficile perché non basta raccontare il contenuto scientifico, una teoria, una conclusione, un dato, perché quelli si aggiornano continuamente. La cosa importante della comunicazione delle scienze è spiegare il metodo, far capire al pubblico com'è che sei arrivato a quella conclusione e come e quanto ne siamo sicuri o meno. Fare capire che la scienza si basa sul dubbio, sull'incertezza, sul confronto tra ipotesi alternative. Però allo stesso tempo, ecco la difficoltà, quando siamo veramente sicuri di qualcosa lì ti puoi fidare: è quello che si chiama il consenso scientifico. Ad esempio, sul fatto che il riscaldamento climatico in atto oggi è dovuto alle attività umane non c'è più una discussione scientifica, è un consenso scientifico. Poi però ci sono sempre scienziati eterodossi che la pensano a modo loro e allora devi imparare a spiegare al pubblico qual è il consenso corroborato, diffuso su quel tema. Quindi è molto difficile perché devi tenere insieme, l’aspetto metodologico e quello di contenuto. L'altro aspetto, che oggi ci interroga molto è il web con la mancanza di un riferimento istituzionale. Sul web molti comunicano la scienza personalmente, sono bravi, fanno il loro canale Youtube e hanno tanti follower e così via. Però ricordiamoci che nella scienza è il contenuto che conta, non io che lo racconto. Quindi non deve nemmeno essere troppo narcisistica, la comunicazione della scienza. Io penso che servirebbero anche sul web delle istituzioni, possibilmente pubbliche, che garantiscano sulla qualità dell'informazione scientifica altrimenti il pubblico è disorientato perché trova uno youtuber che racconta un sacco di fake news o che mescola la verità con fake news e si fa una grande confusione. Allo stato attuale siamo un po’ in un momento di anarchia. Lei in questo periodo sta lavorando a New York. Negli Stati Uniti il nuovo ministro della sanità Robert Kennedy Jr in un’audizione in Senato non ha negato nettamente la correlazione, smentita da tutta la comunità scientifica, fra vaccini e autismo. La preoccupa il passaggio negli Stati Uniti dalla visione della sanità di Anthony Fauci a questa? Vivendo negli Stati Uniti, lavorando a New York, sì, c'è moltissima preoccupazione. C'è un salto di qualità estremamente grave in questo momento e mi pare che i commenti anche in Europa, siano ancora un po’ troppo indulgenti e timidi rispetto a quello che sta accadendo. Sappiamo che le fake news hanno tante armi nel loro bagaglio e sono di grande successo perché dietro ci sono interessi economici, funzionano molto bene, sono virali. Sono molto consolatorie per la nostra mente, ci assolvono da tante responsabilità sociali e individuali e infatti prolificano. Quando però passano dalla campagna elettorale a essere istituzionalizzate, questo genera un salto di qualità. Negli Stati Uniti durante la pandemia c'era la prima amministrazione Trump e ci sono dati scientifici che fanno vedere che gli americani hanno sofferto tantissimo la mancanza di chiarezza negli interventi pubblici di quei mesi. Stiamo parlando di vittime che si sarebbero potute evitare, quindi l'hanno già pagata cara. Eppure, non c'è memoria di quello che è successo. Trump in uno dei primi ordini esecutivi ha tolto la scorta ad Anthony Fauci che è stato ed è un grandissimo ricercatore e riceve minacce gravissime ogni giorno e gli hanno tolto la scorta. Voglio far capire la gravità, di queste decisioni. Noi sappiamo che quando cambia un Presidente degli Stati Uniti c'è lo spoil system, cioè questo metodo americano di sostituzione dei vertici anche delle agenzie federali che si occupano di scienza. Questa volta è stato fatto in un modo molto intimidatorio: in queste settimane, in questi giorni, i miei colleghi dell'NIH, l’Istituto nazionale della salute americano, non hanno i soldi per viaggiare, non possono comunicare liberamente via email le loro ricerche. Sono state sospese tutte le commissioni per i finanziamenti, è tutto bloccato in attesa di nuove decisioni. Questo non era mai successo prima ed è palesemente un gesto intimidatorio, come a dire: adesso comandiamo noi. Il fatto che la più grande Istituzione mondiale per il finanziamento della ricerca biomedica sia guidata da chi ha questa idea, come Robert Kennedy JR o i suoi collaboratori, è molto preoccupante. Voglio ricordare che tutto questo riguarda anche gli italiani, perché le ricerche fatte all’NIH servono per fare medicina e farmaci anche in Italia. Una brutta notizia non soltanto per gli americani, ma in generale per la scienza e che ci riguarda tutti.

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