Disturbo cognitivo lieve: il 10% evolve in demenza in due anni. Lo studio

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I dati sono stati presentati a Roma in occasione dell’XI Assemblea Generale del progetto europeo Artificial Intelligence MIND (AI-MIND) organizzata da IRCCS San Raffaele Roma, Università Cattolica del Sacro Cuore, IRCCS Fondazione Policlinico A. Gemelli e dalla start-up/spin-off accademico Neuroconnect. Prof. Rossini (IRCCS San Raffaele): “Il disturbo cognitivo lieve configura un rischio nettamente aumentato di sviluppare demenza. Il rischio è più alto nelle coorti del Nord Europa”

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Circa il 10% dei soggetti con disturbo cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment, MCI) arruolati nello studio europeo AI-MIND è progredito verso una forma di demenza nell’arco di 24 mesi, mentre circa il 20% ha mostrato un declino cognitivo consistente rispetto al tempo 0, pur permanendo ancora in una condizione di MCI. Si tratta dei primi risultati emersi dall’analisi di una coorte di 1.022 soggetti seguiti in quattro centri clinici europei (Madrid, Oslo, Helsinki e Roma), presentati a Roma in occasione dell’XI Assemblea Generale del progetto europeo Artificial Intelligence MIND (AI-MIND) organizzata da IRCCS San Raffaele Roma, Università Cattolica del Sacro Cuore (Prof.ssa Rossella Di Bidino), IRCCS Fondazione Policlinico A. Gemelli (Prof. Camillo Marra) e dalla start-up/spin-off accademico Neuroconnect (Prof. Fabrizio Vecchio). “Il disturbo cognitivo lieve rappresenta uno stadio intermedio tra un normale e fisiologico invecchiamento del cervello e una degenerazione patologica come quella osservata nelle demenze”, come spiega il Prof. Paolo Maria Rossini, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele di Roma, sottolineando che “questa condizione configura un rischio nettamente aumentato di sviluppare demenza, ma solo in una parte dei soggetti, che nei vari studi fluttua tra il 30 e il 50%, si osserva una reale progressione negli anni successivi”.

In Italia oltre 950.000 persone con MCI

Il progetto AI-MIND, avviato nel 2021 e finanziato dalla Commissione Europea con circa 14 milioni di euro nell’ambito del programma Horizon 2020, coinvolge 15 partner provenienti da 8 Paesi europei e oltre 100 ricercatori, tra neurologi, geriatri, bioingegneri, statistici, informatici ed esperti di Health Technology Assessment, con la partecipazione di Alzheimer Europe. Nel nostro Paese la condizione di MCI riguarda oltre 950.000 persone, mentre in Europa si stimano circa 10 milioni di soggetti. “Poiché il quadro di MCI di per sé non implica una perdita di autonomia o deficit clinicamente rilevanti, sarebbe estremamente importante poter identificare il prima possibile chi, all’interno di questa popolazione, ha un rischio elevato di sviluppare demenza e chi no”, ha sottolineato il prof. Rossini.

Rischio maggiore in Nord Europa

Un dato particolarmente interessante messo in evidenza dal neurologo Rossini “è rappresentato dalle evidenti differenze osservate tra le popolazioni del Nord Europa e quelle dell’area mediterranea”. In particolare, nei Paesi del Nord Europa è più frequente la presenza di una variante genetica, chiamata APOE ε4, nota per aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer. In queste stesse popolazioni si riscontrano anche livelli più elevati nel sangue di alcuni biomarcatori associati ai processi neurodegenerativi (p-tau181 e p-tau217), indipendentemente dall’età, dal sesso e dal livello di istruzione. Queste osservazioni, per il prof Rossini, “rimarcano con forza l’importanza di armonizzare le procedure e i percorsi dei cittadini europei per arrivare a una diagnosi precoce e accurata di una delle principali malattie del terzo millennio”.

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