Speculum ginecologico, due ricercatrici lo riprogettano dopo 180 anni

Nato nella metà dell’Ottocento dalle mani del medico statunitense James Marion Sims, definito in modo controverso come il “padre della ginecologia moderna”, visto come ha condotto le sue ricerche scientifiche, lo speculum è stato sviluppato attraverso dolorose sperimentazioni su donne nere che lavoravano nelle piantagioni come schiave, in assenza di anestesia e consenso. Sims lo costruì per facilitare l’accesso visivo alla cervice, inizialmente usando il manico di un cucchiaio durante una visita ginecologica particolarmente difficile. Il suo modello - metallico, a forma di ferro di cavallo - è oggi esposto nei musei della medicina, ma il principio di funzionamento è rimasto lo stesso: dilatare meccanicamente la vagina per permettere l’ispezione visiva. Ma, nonostante il disagio fisico e psicologico che provoca, nonostante le testimonianze di dolore e ansia legate alla sua applicazione, la sua forma è sopravvissuta quasi intatta nei secoli. Perché? A porsi questa domanda sono state due ricercatrici dell’università di Delft, nei Paesi Bassi, Tamara Hoveling e Ariadna Izcara Gual, esperte in design circolare di prodotti legati alla salute e alla medicina, con un approccio che permette di immaginare dispositivi medici più sostenibili, sia dal punto di vista ambientale che sociale. Dopo numerose interviste con pazienti e operatori sanitari, hanno deciso di creare un nuovo prototipo di questo strumento ginecologico così diffuso e chiamarlo “Lilium”, come il fiore di giglio a cui si ispira. A differenza dello speculum metallico tradizionale, il Lilium è fatto di plastica morbida, ha una forma più compatta e un meccanismo di apertura meno invasivo. L’obiettivo non è solo ridurre il dolore fisico, ma anche l’impatto psicologico dell’esperienza ginecologica. “È progettato pensando prima alla paziente che al medico”, ha dichiarato Hoveling all’agenzia AFP. Il dispositivo permette una buona visibilità per chi effettua l’esame, ma senza costringere il corpo a forzature dolorose. Il progetto è ancora in fase di sviluppo e necessita di ulteriori test, certificazioni e approvazioni normative. Ma la risposta pubblica è stata immediata: la campagna di crowdfunding per finanziare il passaggio alla sperimentazione clinica ha raccolto oltre 100mila euro in appena due giorni e superato i 220mila euro a raccolta conclusa. Un segnale chiaro che si tratta di un cambiamento desiderato, e forse atteso da troppo tempo. Lo speculum, come molte tecnologie mediche, è anche un dispositivo culturale. In Gender Tech , la scienziata e ricercatrice Laura Tripaldi lo definisce una delle prime “tecnologie di genere” della modernità: uno strumento nato per rendere visibile, e quindi controllabile, l’interiorità dei corpi femminili. "Il carico di violenza coloniale dello speculum era tanto letterale quanto simbolico", scrive Tripaldi. La sua invenzione segna l’inizio di un’epoca in cui il sapere medico pretende di “illuminare” l’oscuro, inquietante territorio della sessualità femminile, riducendo il corpo a oggetto di diagnosi, sintomo o patologia da trattare. E quindi, nel 2025, che significato ha il redesign di un oggetto così antico e normalizzato? Per Diletta Huyskes, ricercatrice, co-ceo e co-founder di Immanence, e autrice di un libro sulla storia della tecnologia di genere dal titolo “Tecnologia della rivoluzione” , il progetto olandese di re-design potrebbe generare un impatto positivo sulla società. “In questo caso si aggiorna una tecnologia esistente rispondendo a nuove esigenze, ed è proprio questo che dovremmo chiedere alla tecnologia: che si evolva insieme alla società, invece di presentarsi come qualcosa di neutrale, immutabile, calato dall’alto”, spiega. Ma Huyskes sottolinea che non si tratta solo di innovazione. C’è un’urgenza simbolica, storica e politica nell’evoluzione di un oggetto che ha a che fare con la salute e l’emancipazione femminile: “Lo speculum non ha solo bisogno di essere aggiornato, ma anche di essere riletto nella sua storia. Una storia costruita su fondamenta problematiche come razzismo, sperimentazione non consensuale, controllo sui corpi delle donne, soprattutto delle più marginalizzate”. E allora perché ci sono voluti quasi due secoli per mettere in discussione la forma dello speculum? “Perché è uno strumento che non produce profitto, che appartiene a un ambito, la ginecologia, ancora oggi pieno di tabù, e che riguarda corpi le cui esigenze sono state storicamente ignorate”, risponde Huyskes. “Lo speculum è rimasto uguale a se stesso perché considerato 'neutro', mentre invece è stato cieco di fronte ai disagi e alle richieste delle pazienti. E le donne, in questo campo, non hanno mai avuto una voce forte”. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il cancro alla cervice uterina è il quarto tumore più comune tra le donne a livello globale. Può essere prevenuto grazie al vaccino contro l’HPV e individuato precocemente con Pap test regolari, ma si stima che il 30-35% di donne evitino i controlli ginecologici per paura o disagio. Uno strumento percepito come doloroso, invasivo o traumatico può diventare una barriera all’accesso alle cure. Ripensare il design dello speculum, quindi, è anche un modo per salvare vite. Huyskes ricorda che non è la prima volta che si tenta di aggiornare questo strumento, visto che in passato ci sono stati esperimenti e progetti simili, anche in università statunitensi: “Ma nessuna di queste innovazioni si è mai stabilizzata davvero. Mancano le risorse, manca il sostegno. Vedremo se questa volta sarà diverso. Non è ancora detto”.

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Donata Columbro