Una ricerca del Regno Unito esclude l’immunità per chi è già stato infettato, registrando una progressiva diminuzione degli anticorpi negli ex pazienti
Gli scienziati studiano (e continuano a dibattere) la questione dell’immunità al coronavirus e la durata degli anticorpi. Anche in un’ottica di prevenzione di un’ondata di ritorno dell’infezione da Covid-19 in autunno in Europa. I più recenti studi sierologici hanno provato a verificare se gli anticorpi proteggano effettivamente dall'infezione oppure no e se si possa parlare di immunità permanente per chi è già stato infettato. Stando alle ultime ricerche degli esperti King's College di Londra, il livello di anticorpi prodotti dal corpo umano a seguito dell'infezione da coronavirus potrebbe diminuire in pochi mesi, esponendo a un possibile secondo contagio. È l’ipotesi avanzata anche da uno studio italiano, pubblicato sul British Medical Journal Global Health, che poi rilancia sostenendo come gli anticorpi potrebbero alimentare lo sviluppo di un’infezione nuova e più violenta. La comunità scientifica, su questo, però, non è unanime.
L’ipotesi dell’indebolimento degli anticorpi
Per l’immunità da coronavirus giocano un ruolo chiave gli anticorpi. Analizzando i dati di laboratorio degli ultimi mesi, i ricercatori King's College hanno registrato come il loro livello raggiunga il picco dopo circa tre settimane dalla comparsa dei sintomi, per poi gradualmente diminuire. Si sono basati sulla risposta immunitaria di oltre novanta ex pazienti del Guy's and St Thomas', trust da cui dipende l'ospedale di Londra in cui è stato ricoverato in terapia intensiva anche il premier britannico, Boris Johnson. "La produzione di anticorpi da parte di chi si ammala ha riguardato, nei nostri casi, solo un breve periodo”, conferma la dottoressa Katie Doores, responsabile dello studio citato anche dal Guardian. Secondo i ricercatori, tre mesi dopo l'infezione soltanto il 17% di chi ha contratto il virus mantiene la stessa potenza di risposta immunitaria, destinata a ridursi in certi casi fino a non essere più neppure rilevabile. L’ipotesi dovrà essere confermata con ulteriori prove scientifiche. Se così fosse nessuno sarebbe immune a una nuova ondata di Covid-19 in autunno e, come sostiene Doores, si aprirebbero scenari dubbiosi anche sull’ipotesi di un futuro vaccino. “Se l'infezione genera livelli di anticorpi così limitati nel tempo – spiega - anche la copertura di un futuro vaccino, teoricamente, avrà una durata limitata".
Dubbi sullo studio italiano
Un team di ricercatori dell’Irccs Burlo Garofolo di Trieste, insieme con la London School of Hygiene & Tropical Medicine, ha pubblicato sul British Medical Journal Global Health i risultati di un lavoro secondo il quale gli anticorpi acquisiti dall'infezione provocata da Sars-CoV-2 non solo potrebbero non proteggerci da una nuova infezione, ma aumenterebbero la probabilità di svilupparne una più grave della precedente. “Un’ipotesi plausibile”, si legge, legata a un meccanismo immunologico noto come “Antibody dependent enhancement (Ade)”, già coinvolto nella diffusione di altre infezioni, che induce la produzione di anticorpi non neutralizzanti capaci di favorire l'ingresso del virus nelle cellule. Una tesi che richiederà ricerche epidemiologiche e immunologiche/sierologiche più approfondite, come ammettono gli studiosi guidati da Luca Cegolon, epidemiologo dell'Ausl 2 di Marca Trevigiana di Treviso. Intanto, su Twitter, Francois Balloux dell’inglese UCL Genetics Institute ha espresso forti dubbi riguardo lo studio. “Com'è possibile – si legge sul Tweet che cita lo studio italiano - che un articolo con una tale assurdità speculativa e non comprovata come questa possa essere pubblicato su una rivista scientifica?”.