“Faremo tutto ciò che è umanamente possibile per vincere la pandemia insieme e ci riusciremo, dobbiamo riuscirci”: questo il grido di speranza di Laura Lupi, 24enne operatrice sanitaria, in un’intervista pubblicata sul sito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite
“I miei turni durano dalle 7 alle 10 ore, durante i quali non posso mangiare né bere, perché è impossibile togliersi le tute protettive. A volte mi manca il respiro e non sento l’aria fresca nemmeno se apro una finestra”. Sono queste le parole di Laura Lupi, infermiera in servizio nel reparto Covid-19 dell’ospedale di Teramo, in Abruzzo, in un’intervista pubblicata sul sito dell’Onu e raccolta dall'Ufficio regionale dell'Organizzazione mondiale della sanità per l'Europa. L’operatrice sanitaria italiana, 24 anni, ha raccontato cosa significhi veramente essere in prima linea in questo periodo di emergenza sanitaria legata alla diffusione del nuovo coronavirus, tra il terrore costante di contrarre l’infezione e il desiderio di vedere i pazienti guariti dopo il calvario. “Io so che possiamo sconfiggere il virus, lo possiamo combattere insieme”, ha detto. “Noi faremo tutto ciò che è umanamente possibile per vincere la pandemia insieme e ci riusciremo, dobbiamo riuscirci. Mai sottovalutare noi infermieri” è il suo grido di speranza.
I primi venti minuti
Uno degli aspetti più significativi su cui si è soffermata l’infermiera, riguarda l’inizio del turno di lavoro in ospedale, fase molto delicata e particolare. “Il modo in cui indossiamo i nostri indumenti protettivi all’inizio di ogni turno decreta il nostro destino. Quei primi venti minuti necessari per indossare la tuta protettiva sono fondamentali per evitare l’infezione” ha spiegato la giovane al termine della sua prima settimana nel reparto Covid-19 del nosocomio abruzzese, dove si occupa di 34 pazienti. E proprio la distanza fisica dai ricoverati è la parte più difficile per chi lavora negli ospedali in questo periodo: “Mantenere la distanza fisica dai nostri pazienti risulta ancora più complicato dal fatto che siamo interamente coperti. La maggior parte della connessione umana, che è una delle cose che mi ha fatto innamorare di questo lavoro, si perde inevitabilmente”.
L’esperienza del primo giorno
Laura, laureatasi in scienze infermieristiche solo un anno fa, dopo aver lavorato in reparti di medicina generale e geriatria, ha deciso di scendere in campo con coraggio anche se “niente avrebbe potuto prepararmi per le sfide professionali ed emotive che sto affrontando adesso”, ha raccontato. Un altro momento molto particolare è stato quello del suo primo giorno di lavoro in corsia, nel reparto Covid-19. “Sono entrata in una stanza e un paziente stava piangendo. Quando gli ho chiesto cosa fosse successo mi ha risposto che sua suocera era morta e lui non poteva consolare sua moglie. Tutto quello che ho potuto fare per alleviare la sua pena è stato mettere una mano sul suo petto, ma lui non riusciva nemmeno a vedere il mio viso. Il primo giorno è stato particolarmente difficile ma ne sono venuta fuori”, ha detto. Poi, al rientro a casa, stremata, “fisicamente ed emotivamente distrutta, tutto quello che desideravo era l’abbraccio di mia madre, ma ovviamente non era possibile. All’inizio ho dovuto combattere l’istinto di arrendermi, ma non potevo abbandonare i miei colleghi. Devo continuare a fare il mio lavoro e so che posso fare la differenza per le vite dei pazienti”.
La motivazione principale
La sua vita, da quando è iniziata l’emergenza, è cambiata, anche a casa. “Vivo con i miei genitori e mio fratello, ma non passo del tempo con loro da quando ho iniziato a lavorare in questo reparto. Non posso correre il rischio di contagiarli, quindi non possiamo neanche condividere le cene. Ho il terrore costante di contagiare qualcuno e preferisco evitare di pensare al lavoro alla fine del turno”, ha aggiunto la giovane infermiera, che nel cuore coltiva ogni giorno una speranza, quella per cui i suoi pazienti possano dire “Io sono sopravvissuto al coronavirus: questa è la motivazione che mi spinge ad andare avanti. La sola cosa che vi chiediamo è di rimanere a casa per noi. Noi saremo al lavoro per voi”.
La solidarietà
Un aspetto che sta aiutando molto gli operatori sanitari è, soprattutto in questa fase, la solidarietà che proviene dall’esterno: “Abbiamo sempre saputo che il nostro lavoro come infermieri comporta dei rischi. La differenza ora è che lo sanno anche gli altri. Mi sento ricompensata dalle espressioni di solidarietà, è gratificante sapere che le persone riconoscano il nostro ruolo e l’importanza del lavoro che facciamo”, ha poi concluso.