Parent Coach: una moda da eccentrici? A guardare bene, no.

Salute e Benessere

Virginia Di Marco

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Madri e Figli

Si può imparare a fare i genitori? E le aziende possono imparare a supportare al meglio le madri e i padri lavoratori? 

Quante volte abbiamo sentito ripetere che i figli non arrivano con il libretto delle istruzioni. O anche che per essere buone madri (e padri) dobbiamo ascoltare solo il nostro istinto.

Ebbene, con la gravidanza di Maghan Markle, alias moglie del Principe Harry, ho scoperto che queste perle di saggezza popolare non valgono nulla.

Per essere un buon genitore, la prima cosa da fare è… Assumere un “parent coach”.

Il coach genitoriale.

Qualcuno, cioè, che ti insegna a diventare il genitore perfetto, o quasi.

La royal couple si è affidata a alla tata di Hollywood, Connie Simpson, considerata dalle celebrities amiche di Meghan (George e Amal Clooney, ma anche Justin Timberlake e Jessica Biel) una vera e propria “lifestyle guru”, con un'esperienza di circa 250 bambini allevati alle spalle.

Ma chi è e che cosa fa un parent coach?

Potenziare l’autorevolezza dei genitori, migliorare gli scambi comunicativi con i figli, trasformare i genitori in modelli sicuri ed efficaci, gestire i conflitti e molto altro ancora…

La lista delle competenze del parent coach è lunga, come si legge anche sul sito parentcoaching.it

In Italia, questa figura professionale è ancora poco diffusa.

In Gran Bretagna - patria delle nannies alla Mary Poppins - il ruolo del parent coach è più conosciuto.

Esistono organizzazioni e accademie di formazione. Una delle principali è la Parent Coaching Academy, il cui motto è “Per i genitori che vogliono eccellere”.

La tentazione di liquidare il parent coach come un’eccentricità da star con il pallino di avere una vita tagliata su misura per il proprio account Pinterest è forte.

Ma approfondendo la lettura del sito della PCA e di altre organizzazioni analoghe emergono alcuni aspetti che mi portano a riconsiderare la faccenda anche sotto un’altra luce.

In primo luogo, il fatto che i parent coach inglesi lavorano molto anche con le aziende.

“Siamo specializzati nello sviluppare iniziative con datori di lavoro eccezionali impegnati a sostenere sul luogo di lavoro le mamme, i papà e chi si occupa di un bambino”, scrive il Chief Executive PCA, Lorraine Thomas.

“Se sei felice a casa, prima o poi si vede anche sul lavoro”, riporta il sito Parentingpeople, ricordando che, in Gran Bretagna, il 40% della forza lavoro è composto da genitori, che 2 madri su 3 hanno poca fiducia nelle proprie doti di madri lavoratrici.

In Italia le madri sono considerati ancora nella categoria “lavoratori svantaggiati” (come si può leggere nelle relazioni annuali dell’Ispettorato nazionale del lavoro).

Sempre l’Ispettorato del lavoro, ci dice che nel 2016 quasi 30mila donne si sono licenziate dopo la gravidanza. Di queste solo 5.261 sono passate ad altra azienda dopo la maternità. Tutte le altre sono uscite dal mercato del lavoro per motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino (costi elevati e mancanza di nidi) o alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia.

Mentre l’Istat lo scorso anno, in occasione dell’8 marzo, ci ricordava che solo una donna su due tra i 20 e i 64 anni ha un lavoro.

Cifre che fanno il paio con testimonianze di vita vissuta, come quella di Marta(e di tante altre come lei), discriminata durante colloqui di lavoro perché mamma di una bimba piccola. 

Alla luce di questo, un po’ di parent coaching alle aziende italiane farebbe di certo bene.

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