“Sono Giorgia, non sono quello che dicono”

Chissà se da ragazzina, da quella Garbatella che all’epoca era ancora periferia vera, Giorgia Meloni avrebbe mai immaginato di finire, un giorno, sulla copertina di Time. Probabilmente no, ma alla fine è successo. “Dove Giorgia sta portando l’Europa”, il titolo che il settimanale americano riserva alla premier italiana. Già da qui è facile intuire che il ritratto a stelle e strisce non è cosa da poco, perché, al di là delle opinioni personali e delle appartenenze, le viene riconosciuto un ruolo di primo piano a livello europeo, indipendentemente dal giudizio politico su di lei. Scorrendo l’articolo, questo concetto emerge con forza. Un passaggio non scontato, perché quando Giorgia è arrivata a Palazzo Chigi il primo vero grande timore di tutti era proprio la capacità di mantenere la barra dritta negli affari internazionali. Il timore che un sovranismo della peggior specie potesse avere il sopravvento, la paura che scelte ideologiche potessero portare l’Italia se non fuori, ai margini dell’Europa, hanno accompagnato i suoi primi mesi di governo, nonostante avesse subito lanciato un segnale chiaro: il primo viaggio all’estero fu a Bruxelles, per mostrare affidabilità e senso delle istituzioni. La conferma del sostegno a Kiev, anche laddove pezzi della sua maggioranza avrebbero preferito altro, e la piena adesione al modello Atlantico, hanno confermato che probabilmente non ci sarebbe stato nulla di ciò che si temeva. Anche la netta differenza rispetto ad altri leader sovranisti, come Orbán o Le Pen, ha progressivamente definito il profilo di una destra governativa e compatibile con l’asse euro-atlantico. Passo dopo passo, questo lavoro è andato avanti. Stringendo un rapporto sempre più solido con Ursula von der Leyen, viaggiando a Kiev per ben due volte e tenendo sempre l’Italia allineata a Zelensky, stringendo un patto di ferro con gli USA, prima con Biden, subito dopo con Trump. Il doppio canale aperto con Washington — senza sbilanciarsi apertamente né sull’amministrazione uscente né su quella entrante — è stato letto anche a Bruxelles come un segnale di maturità politica. Atteggiamento che ha portato, nel corso dei mesi, anche al disgelo dei rapporti con Macron. Tra i due non è mai scattata la scintilla, e probabilmente non si sceglierebbero come compagni di cena, ma politicamente, in primis dal presidente francese, si giunge al riconoscimento di una leadership non critica, ma affidabile e istituzionale. Meloni non rinnega l’impianto della destra, ma lo riadatta alle esigenze di governo e agli equilibri internazionali. Non stiamo parlando, ed è bene sottolinearlo, di adesione o convergenza politica verso un modello che resta di destra, ma dell’attribuzione al governo Meloni dello status di governo conservatore, compatibile con i valori europei. In poche parole, un governo non pericoloso, ma istituzionale, che porta avanti un’idea di destra senza l’obiettivo di sfasciare il sistema. Time mette in fila e dà corpo a questi concetti, pur non mancando di sottolineare alcune contraddizioni o ambiguità. Perché se la premier ha dimostrato di essere una figura istituzionale affidabile, lo stesso non si può dire per pezzi della sua classe dirigente, che fanno fatica a entrare in questa dimensione. Alcuni episodi recenti — dalle gaffe in Parlamento alle tensioni sul linguaggio istituzionale — hanno evidenziato un divario tra il profilo internazionale della premier e quello di una parte del gruppo dirigente. Probabilmente il motivo per cui alle prossime elezioni, quando saranno, si proverà a far crescere la qualità della selezione, non ancorandola più, come è stato sino ad ora, a un vincolo esclusivo di militanza, bensì a quello della competenza e della capacità di declinare i propri ideali politici in una cornice di governo. Il pezzo del Time aggiunge poi qualcosa in più anche al profilo stesso della premier, archiviando di fatto – piaccia o non piaccia ai fedeli di quella linea – il famoso mantra: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”. Nell’intervista è diventato: “Non sono omofoba, non sono fascista, non sono quello che dicono”. È il cambio di passo, la consapevolezza che i valori etici individuali non possono calpestare quelli comuni. Che lavorare secondo un determinato credo politico non significa “seppellire” chi non la pensa come te. È una dichiarazione di rispetto, che un capo di governo non può non fare propria. Pace con il passato, consapevolezza del presente, apertura al confronto. Non per rinunciare alla propria identità, ma per affermarla con più forza, senza chiusure. Può essere che in questo nuovo modo di raccontarsi ci sia già un’astuzia elettorale che guarda all’imminente futuro. Alla necessità di non dividere il mondo in due, ma di allargare la base del consenso. Resta il fatto che un cambio di postura di questo tipo non è facile da far digerire ai meloniani duri e puri. Ecco perché in queste parole la premier parla all’esterno, ma parla anche al proprio mondo. Al fatto di emanciparsi. Di fare i conti con la modernità. Di essere responsabili e sempre più pronti ad assumersi responsabilità. Di dimostrare, anche nei toni, che la forza non è l’urlo. Perché con le risse non si va da nessuna parte. Una transizione che richiederà equilibrio, perché il rischio è quello di perdere coesione proprio nel momento in cui la credibilità si amplia verso l’esterno. Concetti che dovranno essere messi in campo, ma che suonano come un “alert” anche per le opposizioni. Se la destra meloniana si apre, non può essere la sinistra a trincerarsi in una posizione ideologica di retroguardia. Il rischio sarebbe quello di rafforzare la narrazione egemone della maggioranza, se ogni proposta venisse bollata con automatismi che sembrano appartenere a un’altra stagione. La separazione delle carriere, per esempio, promossa e bocciata a fasi alterne tanto a destra quanto a sinistra, può non piacere ed essere contestata in Parlamento. Può essere osteggiata proponendo formule migliori. Ma non può essere banalizzata a slogan sul ritorno del fascismo e del ventennio. Per il Time, Meloni sta costruendo una nuova forma di nazionalismo, a tratti populista, ma legato ai valori europei e atlantici. Non si tratta di una rottura con la tradizione della destra, ma di un adattamento politico che consente a Fratelli d’Italia di smarcarsi dai modelli più radicali che l’avevano circondata fino a pochi anni fa. Un passaggio che di fatto sdogana a tutti gli effetti una destra di governo. Paradossalmente, con la legittimazione internazionale e parallelamente al tempo che passa, crescono però le difficoltà a casa. Il rischio che la stagnazione economica logori la fiducia, spenga l’entusiasmo, freni investimenti e consumi. L’incognita dazi e tutti i contraccolpi che potrebbero provocare. Il PNRR e i suoi ritardi, la difficoltà a spendere e il rischio che l’Italia ci rimanga in mezzo. Una fase in cui il riconoscimento esterno potrebbe non bastare più a tenere insieme tutto il resto. I nodi interni — economici, amministrativi, politici — pretendono risposte che non si misurano in ritratti patinati. Meloni ha ottenuto ciò che in pochi si aspettavano: una legittimazione internazionale piena, costruita passo dopo passo. Ma la vera sfida comincia ora, perché quel credito guadagnato fuori dai confini rischia di scontrarsi con le difficoltà di un Paese che fatica a ripartire. E se i risultati non arrivano, le copertine da sole non bastano più.

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Andrea Bonini