Ricchezza, potere e accesso: quando l’IA amplifica le disuguaglianze

Negli ultimi anni si è diffusa l’abitudine di celebrare online la rapidità con cui l’intelligenza artificiale si sta diffondendo nel mondo, con curve di crescita esponenziali e nuovi primati da migliorare via via. Come quello di ChatGpt, che ha stracciato tutti i record diventando l'app che ha raggiunto più velocemente i 100 milioni di utenti, a soli due mesi dal lancio, e oggi conta su circa 800 milioni di utenti settimanali. Secondo il Microsoft AI Diffusion Report, in meno di tre anni oltre un miliardo di persone ha iniziato a utilizzare strumenti basati sull’IA, rendendola la tecnologia più rapidamente adottata nella storia. Secondo alcuni l’IA è destinata a portare un miglioramento delle condizioni di vita, curando malattie, rendendo più semplice lavorare; altri la vedono invece come una minaccia, dato che molti impieghi verranno automatizzati. Se c’è un punto su cui più o meno tutti concordano, è che la diffusione dell’IA sta ridisegnando la geografia del potere. In cima alla classifica ci sono gli Emirati Arabi Uniti, con un tasso di adozione che sfiora il 60%, seguiti da Singapore al 58%. Due Paesi ricchi, che godono di grandi infrastrutture , connettività capillare e forti investimenti pubblici e privati. All’estremo opposto ci sono Paesi come Zambia e Repubblica Democratica del Congo, dove meno del 20% della popolazione ha accesso stabile a Internet. In Paesi come questi, con un PIL pro capite inferiore ai 20.000 dollari, l’adozione dell’IA precipita drasticamente, segno che la tecnologia non sta colmando il divario globale, ma lo sta anzi ingrandendo, lungo la stessa direttrice Nord-Sud che ha caratterizzato gli scenari socioeconomici nei decenni scorsi. Secondo dati Oxfam, fra il 2020 e il 2024 l’1% più ricco della popolazione mondiale ha acquisito il 63% della nuova ricchezza generata tra il 2000 e il 2024. Poiché gli attori che controllano questa ricchezza sono gli stessi che guidano gli investimenti in IA, esiste il rischio concreto che la tecnologia, anziché ridurre le disuguaglianze, finisca per consolidarle. L’IA potrebbe diventare un acceleratore di potere, un moltiplicatore di vantaggi già esistenti, lasciando indietro chi non ha i mezzi — economici, infrastrutturali o culturali — per adottarla. Disuguaglianze artificiali Esiste anche una dimensione politica, anzi geopolitica di questo processo. La Cina sta investendo molto per promuovere i propri modelli open source, come DeepSeek o Qwen AI di Alibaba in Africa e in altre zone povere del pianeta: non hanno costi di licenza e consumano meno risorse. L’altra faccia della medaglia, però, è che i dati trattati vengono ospitati su server cinesi, senza le garanzie di riservatezza e protezione degli stessi che, almeno in teoria, vengono offerte dai fornitori occidentali. Ci sono grandi disparità a livello globale anche per quanto riguarda non soltanto l’adozione ma la messa a punto di queste tecnologie. Sette Paesi in tutto - Stati Uniti, Cina, Francia, Corea del Sud, Regno Unito, Canada e Israele - ospitano gli sviluppatori dei duecento modelli più avanzati. E Usa e Cina detengono da soli l’86% della capacità globale dei data center che alimentano l’intero ecosistema dell’IA. Alcune zone del mondo: gran parte dell’Africa, del Sud-Est asiatico e dell’America Latina, ne possiedono invece ben poca, dato che mancano le infrastrutture di base. Quasi quattro miliardi di persone, circa la metà della popolazione globale, non hanno accesso affidabile all’elettricità, che a sua volta alimenta i data center che forniscono la potenza di calcolo per addestrare e mantenere i modelli di intelligenza artificiale. Senza elettricità non c’è rete, e senza rete l’IA rimane un traguardo irraggiungibile. Anche qui, c’è un paradosso geopolitico. Mentre i paesi ricchi fanno la parte del leone in quanto ad adozione dell’intelligenza artificiale, e ospitano gran parte delle infrastrutture, il lavoro più umile, quello degli “annotatori”, ossia coloro che etichettano i contenuti per far sì che l’IA impari a riconoscerli e a situarli nel giusto contesto, viene subappaltato a persone che vivono nel Sud del mondo, di solito con stipendi da fame e turni infiniti. È anche grazie a loro che i modelli imparano a capire qual è il linguaggio da evitare e a impedire che descrizioni troppo violente turbino i delicati sonni degli utenti. La barriera linguistica Nel valutare il grado di diffusione dell’intelligenza artificiale va tenuto poi conto anche di un’altra barriera: quella linguistica. A differenza delle tecnologie precedenti, l’IA ha bisogno di un’enorme quantità di testi per addestrare i modelli di linguaggio da cui nascono poi ChatGPT, Gemini e molti altri software e più del 50% dei contenuti utilizzati è in inglese, mentre centinaia di lingue parlate da milioni di persone compaiono con percentuali minime o addirittura non compaiono affatto. I modelli tendono perciò a riflettere le norme, i valori e le strutture linguistiche dei Paesi anglofoni o europei, creando un ecosistema in cui alcune culture sono sovra rappresentate e altre non hanno alcun peso. Per un utente in Asia centrale che parla tagiko, o per un abitante del Malawi che usa il chichewa, l’IA restituisce spesso risposte imprecise o inappropriate. È una nuova forma di esclusione digitale, meno visibile di altre, ma più pervasiva e che si traduce in una sorta di pregiudizio culturale, incorporato negli algoritmi. La comunità tecnologica sta cercando di sviluppare strumenti per misurare e mitigare i pregiudizi nei modelli. Ma qui emerge un’ulteriore contraddizione: i dataset utilizzati per valutare la “fairness” degli algoritmi sono spesso essi stessi incompleti, parziali, sbilanciati verso alcune aree del mondo. Studi recenti mostrano che questi dataset rischiano di nascondere forme più sottili di pregiudizio, portando a conclusioni eccessivamente ottimistiche sulla neutralità degli algoritmi. Alla fine, la domanda fondamentale rimane sempre la stessa: chi beneficerà davvero di questa trasformazione? La risposta dipenderà dalle scelte politiche ed economiche dei prossimi anni. Non basterà abbassare i costi dei dispositivi o diffondere interfacce più intuitive. Serviranno investimenti sostanziali in infrastrutture energetiche, reti di telecomunicazione e data center locali. Sarà inoltre necessario uno sforzo collettivo per ampliare la copertura linguistica dei dataset, includendo lingue e culture oggi marginalizzate. E soprattutto, bisognerà riconoscere che il futuro dell’IA non dipende solo dalla capacità di sviluppare modelli più potenti, ma dalla volontà di rendere questa tecnologia realmente universale.

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Federico Guerrini