Come facciamo a far capire cos’è la guerra a chi non la vive?

Prego, scomodati ché parliamo di domande. La radice di significato della parola deriva dal latino demandare, affidare. Affidare, cosa? Un desiderio. Il desiderio di conoscenza, di sapere ciò che colma un buco d’incerta vaghezza. Si tratta di una parola e di un etimo molto amati dagli studiosi della lingua, che attribuiscono loro un colore pastello, un toccarsi appena tra interlocutori, un gesto di fiducia in forma di punto interrogativo. Personalmente, ci aggiungo l’amore: chi ti ama, ti fa delle domande. Anela di sapere, di saperti, fa dire a te le cose anziché presumere di saperle per conto proprio. Chi ti ama domanda, perché confida nella danza dell’incontro e nella mossa che toccherà all’Altro per compiere il passo a due. Chi ama rivolge domande come atto di interesse, di coraggio, di responsabilità. Chi ama chiede affinché l’amato dica e possa pensare, esprimersi, esporsi. Chi non ama più - facci caso, lettore scomodo - cessa di litigare ma anche di domandare: lascia perdere, smette di chiamare l’Altro a sé attraverso il suono magico dell’interrogativo. Chi non riceve domande, è solo. Chi non ne fa, è in difficoltà. Al contrario, chi chiede fa uso dei quesiti come mattoni della relazione, tenuti insieme dalla malta della connessione, dell’approfondimento reciproco, del pensiero che prima o poi germoglierà nel terreno dove sono state seminate le domande. A mia sensibilità, le risposte sono tanto così meno rilevanti; percepisco più valore in un interrogativo che nella sua soluzione, nell’avvio del processo che nella sua conclusione - che non di rado va rimandata nel tempo, risulta complessa, non necessariamente sempre definitiva, sincera, convincente. La domanda ama, la risposta non necessariamente. Quando lo fanno entrambe, si compie il sacro. Ti scrivo questo perché sono in arrivo dall’Ucraina, dove con il collega Damiano Rizzi della ONG Soleterre e il fotografo di guerra Ugo Panella abbiamo attraversato il confine polacco passando da dove passano le armi per arrivare a Lviv, città lontana dalla linea russa di conflitto eppure bersaglio strategico. Volendo riferire come sia stato per me, io vi parlerei - e infatti lo sto facendo - di domande. Ve ne riporto due. La prima, quella della collega del St. Nicholas Hospital, centro pediatrico dove si curano i minori nel corpo e nell’anima mentre fuori c’è la guerra. Sul punto di salutarci, dopo avermi regalato una scatola di cioccolatini - lei a me, io a mani vuote in arrivo da un Paese di pace, lei con un gesto concreto e compiuto in anticipo di stanza in un Paese in guerra - ci domanda: ma in Italia che percezione avete di quanto stia accadendo qui? Ero rimasta indietro fino a quel momento: ho un inglese incerto del quale mi vergogno, qualche espressione idiomatica dentro a cui mi rifugio. Eppure in quel momento mi sono lanciata nel vuoto della mia ignoranza senza elastico, perché qualcosa di impellente mi impossibilitava a tacere. Ho ripensato a quasi quattro anni fa, dopo l’invasione russa: venni letteralmente sommersa dalle richieste urgenti di interviste, dirette, interventi per parlare di come porsi di fronte alla minaccia di una guerra in Europa, come affrontare l’argomento con i figli e gli studenti, da che età, con quali parole. Eravamo in pericolo? Ci siamo accorti non molto tempo dopo di no - nella misura in cui l’esercito di Putin non avrebbe bombardato Firenze come stava facendo con Kiev, l’angoscia è rientrata, i pensieri e i timori di venire coinvolti direttamente in scene studiate sui libri di scuola si sono stemperati e l’invasione si è fatta per i più mera questione cronachistica, da Tg e giornali - ovvero più da testa, che da pancia del Paese. E così ho voluto dirle quel che a mia sensibilità pareva una risposta sincera e quindi inevitabilmente brutale: mah, nel tempo il coinvolgimento si è abbassato, non sono sicura che ci sia un percepito poi tanto intenso, da parte dei civili italiani. Eppure noi e loro siamo europei, e Lviv è una città di una bellezza incredibile che lo ricorda a ogni sguardo: le tracce del passaggio austroungarico sono evidenti nelle architetture, negli spazi, nel gusto. Ti pare di vederci Vienna, Parigi, città nelle quali magari si è appena passato un fine settimana perché raggiungibili, vicine, cugine - mica puoi fare due giorni a Bogotà. Lviv ricorda quello che conosciamo e che ci è familiare, ma la notte devi avere attivo l’alert antibombardamenti, stare pronto a rifugiarti nel più vicino shelter. A Parigi, no. A Torino, nemmeno. Così, forse, non è facile tenere presente che il nostro continente comunitario dopo una pace lunga decenni è tornato in guerra e anche se stanotte casa mia non verrà sorvolata dai droni russi, resta il fatto che accadrà sulle case di altre persone, di altre famiglie, di altri bambini. “Stefania, come facciamo a far capire a casa nostra cos’è la guerra?”. Eravamo appena usciti dal burns unit, il reparto grandi ustionati del St. Nicholas, tre piani più su rispetto a dove avevamo visitato i bambini ricoverati con diagnosi oncoematologica e insieme ai quali avevamo passato parte del pomeriggio, creato decorazioni natalizie con chi poteva lasciare la sua stanza, osservato testoline nude di chi era allettato e collegato alle flebo. “Stefania, come facciamo a far capire a casa nostra cos’è la guerra?”, mi ha chiesto Damiano. Seconda, grande domanda dei nostri giorni ucraini. Scendevamo le scale dopo una lunga sospensione: una volta usciti dalla camera di Anastasia, quattordici anni, lui si era seduto in penombra, io avevo avuto bisogno di cercare una finestra. Non avevamo più parlato, non ci eravamo più guardati - non avevamo proprio più alzato lo sguardo per l’impossibilità di farci carico almeno per un po’ di qualunque altra cosa avessimo potuto rischiare di intercettare e che non avremmo saputo dove collocare, dopo di lei. Un viso stupendo, da ritratto, da inquadratura cinematografica, da far dire “per la percezione del bello dell’occhio umano, questa ragazza ha un volto perfetto”, l’unica parte del suo corpo visibile. Per il resto Anastasia è avvolta da bende che non nascondono il corpo completamente martoriato, ché le ustioni, il sangue, il pus e le infezioni risalgono gli strati di garza e si depositano in superficie. “Sembrava una geografia”, dirà poi Damiano dopo avere recuperato la parola, “la cartina della guerra”. Io non sapevo dove guardare. Trovavo osceno essere lì, non per la presenza di un corpo difficile da osservare, bensì a causa della mia: mi sentivo io, con la mia pelle intatta e retta sulle mie gambe, io che ho ancora i capelli e posso muovere le dita, ad essere mostruosa. Mi dava la nausea il mio sistema perfettamente funzionante, la mia capacità di girare il collo per guardare dove più mi va, il suono della mia voce non tracheotomizzata. È stato un momento molto difficile della nostra missione e della mia vita, e mentre io mi disgustavo di me, di quello a cui presto attenzione, della mia ancora troppo scarsa coscienza civile, della mia limitatezza, di avere quasi cinquant’anni e ancora la mia mamma, Anastasia, quattordici anni, la totalità del corpo bruciata meno il viso, parlava di come prima le piacesse il basket - “Sì, ero forte!”. “Prima" vuole dire prima della notte nella quale Ternopil è stata bombardata dai russi , casa sua è stata colpita dai missili, ha preso fuoco e tra le braccia le è morta arsa viva sua madre. “Stefania, come facciamo a far capire a casa nostra cos’è la guerra?”, ha così sentito l’esigenza di chiedermi Damiano. A me dentro è sorta una risposta, ma non l’ho detta. Ero ancora scossa, non avevo ancora recuperato la parola e la funzionalità del pensiero, mi pareva mi fosse venuta in mente una cosa senza senso. Dieci secondi dopo, l’ha detta lui: dovremmo portare le persone qui, far loro vedere cosa abbiamo appena visto noi. Quello che era venuto in mente a entrambi, è stata per me la disfatta definitiva: se occorre vedere, toccare, muoversi, andare sul campo, sentirsi coinvolti, avere paura di c’entrare. Se serve averlo vissuto perché non lo vivano gli altri… siamo spacciati, non ce la faremo. Non ce la faremo, capisci lettore scomodo? È questa, la mia amorevole domanda per te: te ne rendi conto? E se sì, ci stai a continuare a scomodarti pensando, e non solo entrando a diretto contatto con le cose per fartele esistere? Perché il pensiero arriva ovunque, sai. Ti porta a Khan Younis, in Sud Sudan, accanto al letto di Anastasia. Ti porta dritto dalla dottoressa Viktoria Koval-Ishchuk del dipartimento di oncologia pediatrica che si chiede se in Italia la pensiamo anche senza averla mai vista. Ti porta nel bosco della famiglia nel bosco, nelle case di riposo, nelle mense, dentro ai maglioni indossati dagli altri, che siano in baby yak o in acrilico - ché comunque dentro ci sono persone. Che aspettano le nostre domande. Che ne hanno per noi.

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Stefania Andreoli