Meloni tra Trump, Europa, Albania e un’Italia che aspetta il suo momento

Giorgia Meloni, al Financial Times, spiega che “è infantile” scegliere tra Europa e Stati Uniti. E forse lo è davvero, soprattutto per un Paese come il nostro che, tra debito, prestiti, finanziamenti – senza voler scomodare storia, valori, collocazione geografica – non può non scegliere l’Europa. Anche se davvero volesse “sposare” Trump invece di Macron, Merz e tutti gli altri, Giorgia Meloni non potrebbe farlo. Semplicemente perché non potrebbe permetterselo. Immaginiamo quindi che il sottinteso di quella frase sia che l’Italia – volente o nolente – debba stare con l’Europa. Nonostante tutto, in una fase come questa, in cui si stanno riscrivendo molti capitoli del nuovo ordine mondiale, non dichiararlo apertamente, lisciare il pelo a chi vede l’Europa come un’entità marginale, rischia di essere pericoloso. Proprio per l’Italia. Lo abbiamo già detto e scritto più volte: nei momenti delle decisioni, conta il peso specifico dei vari Paesi. Quello italiano, per sua natura, è già relativo. Far finta di smarcarsi, senza poterselo poi permettere, rischia di ridurlo ancora di più. Oggi scegliere – e dirlo con chiarezza – non è più un esercizio teorico. È necessario. Perché Trump è tornato alla Casa Bianca da mesi, e la linea americana è già cambiata. Washington ha messo in discussione i fondi all’Ucraina, l’impegno nella NATO, ha riabilitato Putin in una trattativa a due che non sta tenendo conto di nessun altro, ha riportato l’America dentro la logica dei confini e fuori da quella delle alleanze. Lo scenario in cui Meloni si muove non è più quello dell’asse Washington-Bruxelles, ma quello di un’Europa che cerca un nuovo posizionamento mentre gli Stati Uniti predicano la bellezza di un oceano che li tiene – anche fisicamente – lontani dal Vecchio Continente. E in questo contesto, il messaggio della premier – “né con l’uno, né con l’altro” – rischia di restare sospeso nella sua inefficacia. Il che non significa non avere, o non lavorare per, un buon rapporto con gli Stati Uniti. Noi per primi non siamo in grado di immaginare un mondo senza l’America. Ma questa “relazione speciale” deve essere coltivata rimarcando le differenze, reclamando rispetto e collaborazione, cercando un punto di equilibrio che non si costruisce con dichiarazioni che sembrano poco più di un complimento gratuito. Meloni ha lavorato al rapporto con Trump fin dai tempi dell’opposizione. Ci sono sicuramente affinità. Ma quel ruolo di “pontiere” tra le due sponde dell’Atlantico non sta emergendo. Roma sembra fuori dalla nuova mappa strategica degli USA, che oggi privilegia altri Paesi. Lo scenario in cui Meloni si muove non è più quello dell’asse Washington-Bruxelles, ma quello di un’Europa che cerca un nuovo posizionamento mentre gli Stati Uniti predicano la bellezza di un oceano che li tiene – anche fisicamente – lontani dal Vecchio Continente. E in questo contesto, il messaggio della premier – “né con l’uno, né con l’altro” – rischia di restare sospeso nella sua inefficacia. Il che non significa non avere, o non lavorare per, un buon rapporto con gli Stati Uniti. Noi per primi non siamo in grado di immaginare un mondo senza l’America. Ma questa “relazione speciale” deve essere coltivata rimarcando le differenze, reclamando rispetto e collaborazione, cercando un punto di equilibrio che non si costruisce con dichiarazioni che sembrano poco più di un complimento gratuito. Meloni ha lavorato al rapporto con Trump fin dai tempi dell’opposizione. Ci sono sicuramente affinità. Ma quel ruolo di “pontiere” tra le due sponde dell’Atlantico non sta emergendo. Roma sembra fuori dalla nuova mappa strategica degli USA, che oggi privilegia altri Paesi. Eppure Meloni continua a muoversi senza assumere una posizione netta, in modo ambivalente. Per esempio, non c’è stata alcuna critica alle parole di J.D. Vance. Neppure quando ha definito la NATO “irrilevante”, ha detto che l’Europa debba arrangiarsi da sola, e ha parlato di una nuova stagione di “sovranità vera”. Meloni ha definito quelle parole “uno stimolo alla riflessione”, sostenendo addirittura “che ha ragione su alcune cose”. Incurante del fatto che molte di queste affermazioni contrastino con la sua stessa linea. Basti pensare al peso che Meloni dà alla NATO: “non si può immaginare un futuro senza di essa”. Ecco allora che, per l’Italia, restare in mezzo significa rischiare di essere tagliata fuori da tutti i fronti. L’Unione Europea è in fase di ricostruzione: Macron rilancia la difesa comune, Merz cerca un piano industriale condiviso. Meloni, per ora, osserva. Non disturba. Ma non guida. E questo silenzio può diventare un problema. Vale per l’America e l’Europa, ma vale anche per le questioni interne, dove il governo appare poco incisivo. Su molti dossier si è scelto di farne una battaglia mediatica. Dopo il blocco dei mesi scorsi, il Consiglio dei Ministri ha varato un nuovo decreto sull’accordo con l’Albania: uno dei due centri di accoglienza sarà trasformato in CPR, Centro di Permanenza per il Rimpatrio. Una mossa – come hanno scritto in molti – che rafforza la linea del controllo, ma che non cambia i numeri dell’immigrazione né quelli dell’accoglienza. Le perplessità legali sono sempre lì, con il rischio di un altro stop dei tribunali più concreto che mai. Ma l’obiettivo per l’esecutivo sembra un altro: tenere il tema in agenda, mostrare forza, segnare il proprio territorio ideologico. Con il risultato che il piano non decolla, e a metà legislatura l’elenco dei provvedimenti per il Paese, quelli realmente impattanti, resta scarno. Discorso identico sulle riforme. Il premierato c’è, ma resta un tema per addetti ai lavori. L’autonomia differenziata crea subbuglio tanto tra le forze di maggioranza quanto tra i governatori delle regioni, compresi quelli di centrodestra. La riforma fiscale non ha stravolto il quadro, i salari reali sono fermi, e l’Italia – parlando di rivalutazione degli stipendi – è fanalino di coda del G20. Tutti aspetti che poco si conciliano con la giusta ambizione di un ruolo a livello internazionale, se poi non marcia di pari passo su questi fronti. Senza dimenticare che Meloni gode ancora di un consenso alto, ma non eterno. Ne è un esempio Matteo Renzi, che toccò quota 43%, salvo poi polverizzarsi. Ed è forse il leader di Italia Viva la molla che ha spinto Giorgia Meloni a presenziare al congresso di Azione, il partito di Carlo Calenda, arcinemico di Renzi. L’ex segretario del Pd ha dedicato un libro a Meloni, in cui mette in discussione non solo le sue politiche ma anche le sue doti, la sua trasparenza, la sua gestione del potere. Impossibile non pensare che, dietro il mantra del “dialogo con l’opposizione responsabile”, ci sia anche la volontà di regalare visibilità al principale competitor di Renzi nella conquista di ciò che resta del cosiddetto “centro”. Senza scordare l’attivismo di Salvini e gli scontri tra il leader della Lega e Tajani. Tutte situazioni che dovrebbero spingere Meloni a “rafforzarsi sul serio”, per evitare di essere travolta da eventi più o meno imprevedibili. Ecco perché servono posizioni chiare e definite. Tanto sulla scena internazionale quanto su quella nazionale. L’ambiguità non paga. Così come la strategia del rinvio. Puntare su un infinito equilibrismo significa scegliere l’immobilismo. E l’Italia ha bisogno di tutto, fuorché di questo.

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