Quelle domande, decisive, che non ci poniamo sui nostri figli

Quando aveva 19 anni Roberto iniziò a farsi seguire da un mago. Ci era andato per un annetto, fino a quando un’imperdonabile leggerezza del “professionista” rimise in corsa la concorrenza, ossia la psicologia, regalandomi un paziente. “Un giorno sulla scrivania, nascosto malamente tra le carte, notai qualcosa di familiare che spezzò l’arcana atmosfera che si respirava in quella stanza. Era la Gazzetta dello Sport. Smisi di andarci perché anche io leggevo lo stesso giornale”. Cosa può cercare un ragazzo dal mago. Scorciatoie, gratta e vinci esistenziali. Qualunque cosa sia, meglio porsi qualche domanda invece di riderci sopra. Angela 18 anni. Fuma canne, come fanno tutti nella sua compagnia. I genitori mi interpellano, il padre si pone con duttilità, è ragionevole, mentre per la madre sembra una tragedia. Continua ad attaccare la figlia, incolpa gli amici che frequenta, vorrebbe chiuderla in casa. Niente dubbi su di sé, niente curiosità sulle motivazioni della ragazza. Dopo quindici giorni, arriva quest’ultima, tatuaggi e piercing al naso. Parla con sincerità della confidenza con le cosiddette droghe leggere, non perde d’occhio il telefono, ma è molto sveglia. “La mamma si ostina a considerare solo le canne, non mostra interesse per il malessere che mi spinge a farne uso. Paragona la mia vita con la sua, come se i tempi fossero gli stessi, e questo ci rende distanti. Papà almeno ci prova”. Luciana è una ragazza di 21 anni, i genitori molto presi da altro, separati e in conflitto perenne, la vivono come un fastidio. Un anno fa se n’è andata, trovando un lavoretto, ora vive da sola, ma i soldi non bastano. In questi giorni mi cerca di frequente al telefono, abita a 40 chilometri da me. Piange, è sopraffatta dalla depressione, necessita anche di un supporto farmacologico, per il quale le avevo suggerito di rivolgersi al Cps. “Dom, scusa se ti disturbo ancora ma sto troppo male. Lo psichiatra mi ha dato il secondo appuntamento tra un mese, la mia dottoressa della mutua è piena di filtri e poco raggiungibile”. Le chiedo se sta prendendo i farmaci. “Non sono mutuabili e io non ho i soldi per comprarli. Questo mese mi sono arrivati 1200 euro sul conto. 530 sono andati per l’affitto, 250 la rata della macchina, mi si è ammalato il cane e il veterinario mi è costato 400 euro, il niente rimasto è sparito tra bollette e sopravvivenza”. Chiamo un medico di base della sua città, una donna che conosco per la sua umanità, si rende disponibile a vedere la ragazza senza compenso. Mettiamo una pezza, fino al prossimo crollo. I nostri ragazzi, sentenziano gli specialisti, sono mammoni, se ne vanno da casa dopo i trent’anni. Una giovane italiana fa la cameriera ad Amsterdam e prende 4000 euro al mese, con quella cifra è diventata meno mammona. Scattare una fotografia e considerarla la rappresentazione perenne dei ragazzi, senza porsi domande. Una dramma cui noi adulti non riusciamo a porre rimedio, sovente senza colpa, perché noi stessi siamo provati da situazioni complicate, in tutti gli ambiti. Altre volte per impreparazione evidente. Mi trovo in una città del Sud, terrò un paio di conferenze. Approfittando dell’occasione, degli insegnanti di una scuola professionale mi telefonano in albergo per chiedermi se la mattina successiva alle 8,30 sono disponibile per una breve chiacchierata con un centinaio di ragazzi. Accetto molto volentieri, a quell’ora sono libero. Mi accompagnano nell’auditorium, in realtà uno stanzone triste, anonimo, mentre lo raggiungiamo mi manifestavano grandi preoccupazioni sui ragazzi. “Sono dei demoni”, esclama una di loro, forse esasperata dal logoramento quotidiano. Comprensibile, il disagio dei ragazzi è difficile da sostenere, impossibile quando si somma a quello personale degli insegnanti. In effetti l’ambiente sembra una tonnara, il frastuono è massimo, i ragazzi palesemente con la testa da un’altra parte, ognuno intento negli affari propri. Una situazione di anarchia, che gli insegnanti e la preside cercano di sedare con rimproveri a raffica ed esortazioni a rispettare l’ospite “importante”. Ma la situazione non muta. Anzi, è come gettare benzina sul fuoco. Quando mi viene data la parola rimango in silenzio, anche i ragazzi, per contagio, tacciono. Poi inizio. “Vi chiedo scusa per essermi intrufolato nella vostra mattinata, prometto che sarò brevissimo. Voi potete continuare a fare quello che stavate facendo, chattare o chiacchierare, l’importante che lo facciate sottovoce, così i pochi che vogliono ascoltarmi possano farlo”. Siamo rimasti insieme due ore e ci siamo lasciati con nostalgia reciproca, per me ancora viva. I professori mi chiedono di fermarmi qualche minuto nella loro stanza. Vogliono sapere come sono riuscito a catturare l’attenzione dei loro studenti. In realtà il mio atteggiamento era stato determinato proprio da quello dei professori. Mentre loro sgridavano quei ragazzi, unendo due esasperazioni, e io aspettavo che mi dessero la parola, mi ero detto alcune cose. Innanzi tutto, che quegli adolescenti erano all’istituto professionale non per scelta ma perché non in grado di affrontare altri indirizzi. Una buona parte di loro viveva in famiglie problematiche, diversi erano figli di separati, di disoccupati e, probabilmente, una buona parte aveva questioni aperte nella vita sentimentale. Senza contare che chi fosse arrivato alla fine del percorso scolastico, avrebbe dovuto misurarsi con gli endemici problemi di disoccupazione di quell’area depressa. Chissà che voglia di ascoltare un settantenne che non sapevano neppure chi fosse. Che poteva capire lui, che non era neppure di quella città. Il ragazzo che abbiamo incontrato all’inizio andava dal mago. Un’altra fuma le canne, un’altra ancora vive con uno stipendio che si dimezza dopo avere pagato l’affitto e non può pagarsi neppure gli antidepressivi. Tanti altri, in quello stanzone scolastico del Sud e chissà in quanti altri luoghi, sommano i loro malesseri, sembrano una carovana senza una meta. Non rappresentano tutta la loro generazione, ma certo ne sono uno spaccato significativo. A tutti riserviamo piccoli e grandi processi senza porre loro uno straccio di domanda. Per la verità non le poniamo neppure a noi stessi, a cominciare da quella decisiva, ossia per quale ragione una ragazza, un ragazzo dovrebbero cooperare con una comunità della quale non si sentono parte né si sentono accolti. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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Quelle domande, decisive, che non ci poniamo sui nostri figli