Ascesa e declino dell’Antipolitica

Politica

Giovanni Orsina, Professore di Storia contemporanea Direttore Luiss School of Government

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Gli ultimi cinquant’anni sono stati i decenni della fine della rivoluzione politica, ma pure del trionfo di quella antipolitica. Ed è la crisi di questa seconda rivoluzione, quella antipolitica, che stiamo vivendo oggi

Nel secondo decennio del XXI secolo si è chiusa (forse) una fase storica rivoluzionaria durata quasi mezzo secolo. Gli ultimi cinquant’anni, infatti, sono stati i decenni della fine della rivoluzione politica, ma pure del trionfo di quella antipolitica. Ed è la crisi di questa seconda rivoluzione, quella antipolitica, che stiamo vivendo oggi. L’utopismo antipolitico puntava sull’Individuo Globale, svincolato da gerarchie e territori, in grado di auto-costituirsi un’identità e meno incline ad addensarsi in demos. Poi, dal 2001 a oggi, il terrorismo internazionale, l’atteggiamento assertivo della potenza cinese e la Grande recessione hanno fatto irruzione sulla scena, ricordandoci che la politica o almeno il bisogno di essa erano ancora tra noi. Il “sovranismo”, in quest’ottica, va letto come una delle declinazioni possibili – all’interno delle democrazie liberali – della domanda di politica e in generale di strumenti per tentare di controllare l’esistente.

Nel secondo decennio del XXI secolo si è chiusa (forse) una fase storica rivoluzionaria durata quasi mezzo secolo. Se non partiamo da questa premessa difficilmente potremo capire che cosa stia succedendo all’Occidente, alla democrazia e, più in generale, all’ordine mondiale. «Ohibò» – obietterà chi legge – «una rivoluzione negli ultimi cinquant’anni? Ma è vero semmai il contrario: questi sono stati i decenni della fine della rivoluzione!». Sì e no: sono stati i decenni della fine della rivoluzione politica, ma pure del trionfo di quella antipolitica. Ed è la crisi di questa seconda rivoluzione, quella antipolitica, che stiamo vivendo oggi. Ma andiamo con ordine.

La fuga dalla politica e l’utopismo degli anni Novanta

Il comunismo è stato la più importante e duratura utopia politica del Novecento, ma il suo tramonto ha cominciato a farsi visibile già negli anni Sessanta del secolo scorso. Il Sessantotto ha rappresentato l’estremo tentativo di rigenerarlo, a ovest del Muro coi moti studenteschi e operai, a est con la Primavera di Praga. Il fallimento di quel tentativo ha dato avvio alla fuga dalla politica come attività collettiva, ideologicamente fondata e finalizzata alla trasformazione del mondo. Gli anni Settanta sono stati così, nelle democrazie avanzate, l’epoca del «riflusso», del trionfo del privato, del declino dell’uomo pubblico. Nel blocco sovietico, il decennio in cui i dissidenti – Václav Havel, Adam Michnik, György Konrad – hanno teorizzato l’inutilità dell’impegno politico e la necessità che l’opposizione al regime fosse portata sul terreno etico. Ma fuggire dalla politica non significa fuggire dall’utopia. Del resto, chissà se la modernità secolarizzata saprebbe vivere senza utopia. La spinta verso la costruzione di un mondo perfetto non si è esaurita, allora, ha soltanto imboccato altri percorsi: ha smesso di puntare all’emancipazione collettiva delle classi o delle nazioni per concentrarsi sull’autodeterminazione dei singoli individui, e per promuoverla si è affidata a strumenti non politici. A partire dagli anni Settanta si è affidata ai diritti umani, alle convenzioni internazionali, ai tribunali, alle corti costituzionali. Dagli anni Ottanta, al mercato. E infine al progresso tecnologico, alle istituzioni tecnocratiche, ai processi d’integrazione globale.

 

L’utopismo antipolitico ha raggiunto lo zenit negli anni Novanta. Non per caso, in quel decennio, in tante democrazie i partiti di destra e di sinistra si sono avvicinati al centro, la destra accettando i diritti, la sinistra il mercato. Non c’era più spazio per fare politica, insomma. Quando si parla di utopismo e di anni Novanta il primo nome che viene in mente è quello di Francis Fukuyama e della sua “fine della storia”. Ma Fukuyama ha avuto un successo planetario proprio perché ha saputo condensare lo spirito di quell’epoca, spirito che infatti ritroviamo, in forme diverse, in moltissime altre pubblicazioni uscite nello stesso torno di tempo. Nelle pagine di quei libri si aggirano – se non altro in prospettiva – folle di Individui Globali felicemente sradicati, privi di identità precostituite e perciò liberi di costruirsi l’identità che vogliono, svincolati da gerarchie o rapporti di potere, non limitati da vincoli territoriali. Certo, in molti di questi libri ci si chiede pure che cosa ne sarà della politica e della democrazia, in un mondo cosiffatto. In genere però se ne auspica o profetizza vagamente la ricostruzione a valle della trasformazione epocale, ritenuta del resto ineluttabile, senza chiarire come di preciso la politica democratica si ricostituirà, infine.

Gli Individui Globali e la convivenza impossibile col potere democratico

Nell’utopia antipolitica degli anni Novanta, però, la democrazia e l’Occidente hanno finito per annegare. L’Occidente, da una parte, perché si è convinto che l’affermarsi di quell’utopia rappresentasse il suo trionfo, e di non essere quindi più necessario visto che l’intero globo si era ormai occidentalizzato, o almeno era in via di occidentalizzazione. La democrazia, dall’altra parte, perché banalmente gli Individui Globali non si addensano in un Demos né sopportano il Kratos.

 

In realtà l’Occidente aveva già cominciato a entrare in crisi negli anni Sessanta. Lo si vede molto chiaramente quando si studia l’Internazionale Liberale, un organismo nato proprio per costituire una sorta di coscienza ideologica dell’Occidente e che, come dice il nome stesso, è il luogo dove possiamo trovare il pensiero liberale a un alto grado di purezza. Negli anni Cinquanta e Sessanta, il liberalismo dell’Internazionale Liberale è ancorato al contesto storico e geografico dell’Occidente. Detto altrimenti, il liberalismo è l’Occidente, non può essere separato dalle sue radici storiche e geografiche che si trovano appunto nel contesto occidentale. Dalla fine degli anni Sessanta, invece, quegli stessi valori liberali finiscono per disincarnarsi, diventano astratti, non appaiono più come nati e collocati in un determinato spazio e tempo, ma valgono per gli esseri umani tutti, sono valori “globali”, appunto. Dopo il 1989, poi, questa spinta alla globalizzazione dei valori occidentali diventa ancora più forte. La convinzione, insomma, è che ormai tutto il mondo sia in via di occidentalizzazione, e che quindi, a quel punto, l’Occidente non serva più e possa finalmente sciogliersi. L’inutilità dell’Occidente è sancita dal suo trionfo.

 

La parola democrazia, è arcinoto, discende dai due termini greci demos e kratos, ossia popolo e potere. Può esserci un popolo, però, senza un’identità collettiva ragionevolmente stabile nel tempo? Gli Individui Globali non fanno demos nel senso classico della parola, non si addensano in un popolo, perché auto-costituiscono la propria identità al di là di qualsiasi ancoraggio sociale o territoriale. Certo, possono riunirsi in entità collettive nel momento in cui ritengano opportuno convergere temporaneamente su degli obiettivi, ma queste entità resteranno sempre effimere e provvisorie. Gli Individui Globali vivono poi, o quantomeno vorrebbero vivere in aspirazione, in un mondo a basso tasso di potere, che lasci loro il massimo spazio di auto-determinazione possibile. Da qui però discende, se non la distruzione del kratos, quantomeno un kratos minimo. In queste condizioni la democrazia non può che diventare qualcosa di molto diverso da quel eravamo abituati a chiamare con questo nome.

Dal terrorismo internazionale alla crisi finanziaria globale, così è tornata la Politica

L’utopia antipolitica è cominciata ad andare a male nel primo decennio del XXI secolo, con l’11 settembre prima, poi con la Grande recessione e l’ascesa assertiva della Cina. Negli ultimi vent’anni ci siamo così resi conto dei suoi risvolti distopici: ce ne siamo resi conto lentamente, li abbiamo negati a lungo, e poi ce ne siamo sorpresi e per un po’ non li abbiamo capiti, perché nel frattempo ci si era anche atrofizzato il senso storico. Che cosa abbiamo fatto allora? Ovvio: abbiamo cercato di tornare alla politica, seppure con modalità differenti nei regimi autoritari e nelle democrazie (fragili o consolidate che fossero).

 

L’11 settembre 2001 ha dimostrato che all’interno dell’utopia antipolitica in realtà la politica era ancora tra noi. Bisognava allora gestire questa sfida, e farlo politicamente. Non era pensabile che l’islamismo radicale fosse addomesticato con gli strumenti impolitici del mercato e del diritto. A dispetto del clima utopico degli anni Novanta, poi, dall’inizio del nuovo secolo ha fatto capolino un altro elemento altamente politico: Pechino si è inserita nel contesto globale, in particolare in quello del mercato globale, ma ha continuato a giocare seguendo le regole dell’interesse nazionale. Ci si è accorti così di come il trionfo del modello occidentale aprisse in realtà ampi spazi a possibili free rider non occidentali. Infine, a dimostrare che l’utopia antipolitica era tutt’altro che infallibile e ad ampliare un golfo che certo esisteva già prima tra i “vincenti” e i “perdenti” del mondo globale, è giunta la Grande Recessione. Ampie fasce di popolazione si sono sentite sospinte verso i margini del mercato, né si sono sentite protette più di tanto dal diritto, che creava sì spazi di libertà, ma non sempre riusciva a fornire le risorse sufficienti, economiche o cognitive che fossero, necessarie a utilizzarli. Per molti, insomma, il mondo senza politica ha cominciato ad assomigliare sempre meno a un’ammaliante utopia. Anche se non si può né si deve in alcun modo dimenticare che, nel frattempo, a tantissimi altri quello stesso mondo offriva opportunità straordinarie.

 

La crisi dell’utopia antipolitica ha generato – inevitabilmente, per tanti versi – una nuova domanda di politica. Quello cui abbiamo assistito nel secondo decennio del XXI secolo, insomma, non è stato altro che una stentorea richiesta di tornare alla politica, ossia di ricostruire gli strumenti attraverso i quali gli esseri umani possano tentare, consapevolmente e collettivamente, di controllare e guidare processi dai quali temono altrimenti di essere travolti. In alcuni contesti marcatamente illiberali, come quello cinese, tutto ciò si è tradotto in un irrigidirsi dei vincoli autoritari, in una ricostruzione ancora più forte dei meccanismi di potere. Sistemi rappresentativi fragili come la Russia e la Turchia si sono sbilanciati in direzione autoritaria. Infine, nel contesto delle democrazie avanzate, la conseguenza è stata l’esplodere del “sovranismo” come ribellione contro la crisi dell’Occidente e della democrazia, come richiesta di maggior potere politico e maggior controllo sulle istituzioni democratiche.

 

Oggi, in conclusione, delle due l’una. O la crisi dell’utopia antipolitica dimostrerà di essere un semplice appannamento temporaneo, e il vento tornerà presto a soffiare nelle vele dell’Individuo Globale protetto dal diritto e nutrito dal mercato. Oppure le democrazie dovranno reimparare a fare politica. Con un Demos, un Kratos e un’idea di Occidente. 

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