Crisi e governo tecnico? La Lega pensa già all'opposizione

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"No al governo del ribaltone", ha detto il Carroccio davanti all'ipotesi di un esecutivo Monti. Ma proprio Bossi nel '94 finì sotto accusa dopo la caduta di Berlusconi. Ora la fase di transizione si presenta come un'occasione di rilancio

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"Se sono così fessi da mandarci all’opposizione, ci rifacciamo la verginità". Mai ambiguo, Umberto Bossi. Parla con i suoi, in un virgolettato riportato da La Padania, e in pochissime parole spiega perché la Lega in questi giorni appare così tranquilla. E così sicura di voler stare all’opposizione di un governo guidato da Mario Monti. "Non vogliamo dare a priori la nostra adesione a un governo in cui non c'è progetto né programma. Da fuori si può controllare meglio. Meglio contrattare volta per volta", dice il Senatur. E sembra già delineare i contorni di una battagliera Lega d’opposizione. Nordista e intransigente. Pronta a lanciare una lunga campagna elettorale e rispolverare le sue campagne di "lotta e territorio", per recuperare i voti e la compattezza che questi anni del quarto governo Berlusconi sembrano averle fatto perdere.

"Non ci stiamo" - Elezioni subito, vorrebbe il Carroccio. “No al governo del ribaltone!”, battono i pugni tutti i suoi esponenti. Monti è "un bambino viziato dell’alta finanza", dice Mario Borghezio. E Roberto Calderoli: "No a un esecutivo di evidente connotazione ribaltonistica. La Lega Nord combatterà la futura ‘Banda Bassotti’ e farà un’opposizione durissima". "Sul piano personale – spiega, con toni più prudenti, anche Bobo Maroni – conosco Monti, è nato a Varese e ho grande stima di lui. Ma la posizione della Lega è molto chiara: si deve andare alle urne perché il popolo sovrano possa decidere cosa si deve fare".

Il "ribaltone" padano -
E pensare che proprio i padani nel ’94 furono accusati di ribaltone. Per la fine prematura, a soli otto mesi dalla nascita, del primo governo Berlusconi. Un esecutivo segnato da problemi fin dall’inizio, ma nell’ambito del quale Bossi mostrava il suo volto più "istituzionale": "La governabilità è garantita da noi". Tanto che fin da quando si manifestarono i primi problemi seri, il Senatur si schierò sulla linea di un "governo istituzionale con dentro tutti quelli che ci vogliono stare" (8 luglio 1994). Mentre il Cavaliere al contrario tuonava: "Un nuovo governo solo con le elezioni". Quasi in una premonizione di quello che sarebbe stato 17 anni dopo, anche allora Maroni si mise alla testa di una pattuglia di "dissidenti" della Lega (oggi vengono chiamati "maroniani", in contrapposizione al "cerchio magico" bossiano), contrari a un esecutivo di larghe intese. Ma alla fine le posizioni si allinearono. E la Lega aprì la strada all’epilogo del primo governo Berlusconi e alla nascita dell’esecutivo di Lamberto Dini. Con il Senatur che diceva chiaro e tondo: “Chiedo un governo che liberi il Paese dalla maledizione di Berlusconi”. E Gianfranco Fini, allora fedele alleato del premier, di rimando: “Non prenderò mai più un caffè con Bossi”. Mentre il Cavaliere qualche mese dopo (luglio ’95) così si sarebbe lamentato: “In Italia si è verificato un ribaltone ad opera di Bossi. Bossi è un folle che fa dichiarazioni folli”.

La nuova verginità -
Le parti in commedia, oggi, sembrano invertite. Berlusconi apre a un governo tecnico (nonostante le dichiarazioni delle prime ore), mentre Bossi si schiera sulla linea delle "urne subito", senza se e senza ma. Per riconquistare, dalle fila dell’opposizione, la “verginità” perduta in questi tre anni e mezzo di governo. Anni in cui la Lega ha dichiarato di aver vinto la madre di tutte le sue battaglie, con il via libera al federalismo fiscale. Ma sembra aver perso il suo mordente elettorale, a giudicare dal calo alle ultime amministrative. E dai segnali di sempre maggiore dissenso arrivati negli ultimi mesi dai territori. Il video delle contestazioni alle decisioni di Bossi e dei suoi da parte degli iscritti padani al congresso di Varese è solo l’ultimo episodio, il più vistoso. Dopo le proteste per i voti mal digeriti dei leghisti in Parlamento contro l’arresto di Marco Milanese e contro la sfiducia a Saverio Romano. E ancor prima, i ripetuti allarmi lanciati dal sindaco di Verona Flavio Tosi rispetto alla politica del governo e alla necessità di accantonare Berlusconi.

Ma Bossi fino all’ultimo non ha tradito l’alleato, archiviando con un insulto il dissenso interno: “Tosi è uno stronzo”. Certo, non sono andati giù agli amministratori leghisti i tagli agli enti locali imposti dalle ultime manovre. E Maroni si è fatto paladino delle loro istanze. Ma ben prima degli ultimi mesi, ancor prima del niet di Bossi alla riforma delle pensioni e al taglio delle province, la base padana sembrava insofferente verso la politica del governo, dal mancato taglio ai costi della politica, alle missioni all’estero. Tanto che a giugno dal pratone di Pontida il Senatur ha dovuto lanciare un manifesto di cose che avrebbe preteso dal governo nei mesi successivi, con uno scadenzario ben preciso (ma presto disatteso). Pensare che la legislatura si era aperta proprio nel segno della Lega, tra federalismo, pacchetto sicurezza e linea dura sull’immigrazione. Ma tra lodo Alfano e (annunciati) piani per il Sud, qualcosa per il Carroccio è andato perso, se è vero che ora Bossi si lascia ora sfuggire che c’è una “verginità” politica da recuperare. Dalle fila dell’opposizione. In una lunga corsa alle prossime elezioni.

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