Luca Zaia: Come salvare il made in Italy (anche a tavola)
PoliticaIn "Adottare la terra" (Mondadori) il ministro delle Politiche agricole, candidato con il centrodestra alla guida del Veneto, affronta il tema di uno sviluppo agricolo sostenibile e propone una nuova cultura dell'alimentazione. Leggi un capitolo del libro
di Luca Zaia
Anche il nostro stile di vita può diventare nemico dell’agricoltura, quanto meno di un’agricoltura di qualità. Mangiare non è un gesto individuale, è un «atto agricolo », ammoniva Wendell Berry, il contadino intellettuale del Kentucky che ha osato contestare il modello americano di agricoltura; un concetto che il giornalista Michael Pollan spinge ancora più in là nel suo viaggio all’interno dell’industria alimentare statunitense, affermando che è un «atto agricolo ma anche un gesto ecologico e politico».
Quello che mettiamo in pancia è l’ultimo passo di una catena che parte dalla terra, e dunque ha molto a che vedere con il modello agricolo, produttivo e alimentare che scegliamo di adottare.
La qualità è, innanzitutto, un diritto, si dirà. Invece è prima di tutto un dovere. Non è, né deve essere, in nessun luogo e in nessun caso, un lusso per pochi. Purtroppo, le cose vanno altrimenti. Se c’è un ambito in cui l’uguaglianza è pura astrazione, questo è quello dei prodotti agroalimentari. Così come non tutte le macchine rosse sono Ferrari, il cibo non è tutto uguale: «Pane al pane, vino al vino» non significa che un pane vale l’altro o che tutti i vini si somigliano. La nostra è un’agricoltura che fa delle diversità il suo punto di forza. Giustamente!
Per questa ragione io non sostengo affatto che i prodotti italiani siano diversi da quelli di altri Paesi. Sostengo che il formaggio italiano, come categoria, non esiste, perché esistono i formaggi dei territori del nostro Paese, e ognuno di essi rappresenta la sedimentazione di tradizioni, storie, culture e terre diverse. E questo è vero per tutti i 4471 alimenti del nostro Atlante dei prodotti tradizionali italiani.
In ballo vi è la questione della «qualità ». I consumatori hanno il diritto di poter acquistare la qualità a prezzi ragionevoli. I produttori, quello di avere il giusto compenso per il loro lavoro. Ed è possibile, ma non sempre accade. L’alternativa consiste nel separare i consumatori in due grandi categorie: la prima formata da chi dovrà accontentarsi dei cibi standardizzati e insaporiti solo dagli esaltatori di sapidità; la seconda, composta da chi potrà permettersi il lusso di mangiare i veri prodotti della terra.
È mai possibile che si debba tornare a distinguere le persone in classi, in base a ciò che mangiano? Ci troveremmo, in tale prospettiva, di fronte a una sorta di ingiustizia sociale vecchia che si ripresenta con aspetti inediti, destinata a manifestarsi nella condanna all’obesità sempre più precoce, connessa al consumo di prodotti preconfezionati ipercalorici, di una parte di popolazione la cui propensione all’acquisto, per limitazioni sia culturali sia economiche, è orientata alle offerte low cost dei supermercati.
Per contrastare tale tendenza, una delle battaglie che ho condotto con convinzione è stata quella per educare gli italiani a mangiare diversamente. Si deve incominciare dall’infanzia. Ogni tanto ho la sensazione – forse lo scoramento – che si tratti di campagne contro i mulini a vento.
Per quanto ci sforziamo di comunicare che cosa significhi mangiare la frutta, quella locale e di stagione, sembra una battaglia impari di fronte agli universi percettivi fantastici che promettono, nella réclame televisiva, i prodotti artificiosi e artificiali che vengono propinati ai nostri ragazzi. L’impatto sul pubblico, soprattutto quello formato dai piccoli, sortito da un calciatore che recita in uno spot televisivo ben diretto, è infinitamente più forte di qualsiasi campagna promozionale indetta dalle istituzioni pubbliche.
Naturalmente sono difficoltà che non ci esimono dal tentare di andare nelle scuole, insieme agli insegnanti, a raccontare e spiegare il valore del cibo. «Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari.»
Questo è un brano della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Ma occorre trasformare in atti politici queste parole. Le istituzioni lo devono fare, assumendosi una responsabilità che è per molti versi scomoda perché si scontra con il feticcio della libertà del mercato, con gli interessi dei grandi distributori, con la paura comprensibilissima dei più poveri di spendere di più al momento di fare la spesa. Anche gli enti locali dovrebbero concorrere al conseguimento di risultati corretti in termini di pedagogia alimentare. Magari evitando di disperdere le risorse in generiche promozioni territoriali, per agevolare piuttosto la costruzione di ponti di collegamento controllati fra produttori e consumatori. Per ricostruire il patto tra costoro è necessario rivedere le logiche di una distribuzione cieca rispetto ad alcune questioni: il diritto a una giusta remunerazione per il coltivatore; l’obbligo di una selezione di qualità e di riduzione dei passaggi nella filiera, attraverso il recupero della logica della prossimità da parte degli intermediari e della facoltà di acquistare in modo ragionato e a prezzi accessibili da parte del consumatore. C’è, infine, un altro nemico della terra: la politica sradicata.
L’Italia è davvero una strana nazione. Se si va all’estero – che so, a Barcellona o a New York – si coglie la forza straordinaria che emana dai nostri territori. Si avverte l’anima di ciò che ci rende popolari nel mondo. È un bell’abito e un buon gusto nel vestire, è l’emozione regalata dalla grande musica, è l’originalità di un patrimonio artistico e letterario unico, è la profondità di una cultura scientifica di prim’ordine. E sono anche i colori e gli odori e i sapori dei prodotti della nostra terra a dare corpo a quell’universo conoscitivo che nel mondo è noto come Italia. Quando si è all’estero ci si inorgoglisce – e non potrebbe essere altrimenti – per quell’immenso patrimonio che per tutti è il «made in Italy». Ma quando quotidianamente dobbiamo affrontare la fatica di mantenere, organizzare e promuovere il sistema complessivo di questa ricchezza, là, inevitabilmente, son dolori.
Così, accade che la terra dia frutti senza restituire reddito agli agricoltori; che l’Italia sia fra gli Stati fondatori e fra i principali contribuenti dell’Unione Europea, ma che da decenni si trovi a essere una nazione mal sopportata dalle euroburocrazie; che dovunque, dalla Vetta d’Italia alla Sicilia, si siano sfruttate le risorse ambientali fino a depauperare la terra nel profondo, senza la preoccupazione di riconoscere all’agricoltura un ruolo abbastanza importante da contrastare tali processi di erosione.
La terra, i contadini, il lavoro agricolo, le tecnologie applicate, la trasformazione dei prodotti in valore economico rischiano così di diventare una scommessa perduta. Se non cambiamo strada, e in fretta, la conseguenza inevitabile sarà di gettare al vento una delle più avanzate agricolture del mondo. Forse, senza nemmeno renderci conto che con questa scomparirà anche la civiltà che da essa nasce e di essa si nutre. Com’è che le cose vanno in questo modo? Perché la politica italiana, che pure nel secondo dopoguerra è stata capace di riconoscere per un breve periodo il valore dell’agricoltura, con riforme, investimenti e un progetto sociale ed economico, ha perso il filo per strada?
Ci sono due risposte possibili, fra di loro complementari. La prima è che la nostra classe politica, nella seconda metà del secolo scorso, abbia finito col replicare gli errori delle élite al comando in Italia dalla seconda metà dell’Ottocento, preferendo scommettere sulle grandi imprese anziché credere nel potenziale delle piccole aziende. L’economia forte del nostro Paese è quella determinata, invece, dalle piattaforme produttive territoriali garantite dalla media, piccola e perfino microimpresa.
La seconda è che la classe politica romana continui a rifiutarsi di riconoscere la pluralità di espressioni identitarie locali che sottostanno a tali piattaforme produttive e le hanno rese possibili. Così il sogno centralista è diventato un incubo per il nostro Paese, la cui vera e intima natura è quella di essere plurale.
© 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Tratto da Luca Zaia, Adottare la terra (per non morire di fame), Mondadori, pp.114, euro 17
Luca Zaia (1968) è nato a Conegliano, in provincia di Treviso. Laureato in Scienze della produzione animale, presso la Facoltà di medicina veterinaria dell'Università degli Studi di Udine, si iscrive, giovanissimo, alla Lega di Umberto Bossi. Nel 1995 è assessore all'Agricoltura alla provincia di Treviso. Nel 1998 diviene presidente della provincia, incarico che gli verrà confermato anche nel 2002. Nel 2005 viene nominato vicepresidente della regione Veneto. Nelle elezioni del 2003 e del 2008 viene eletto consigliere comunale al comune di Treviso. Dall'8 maggio 2008 Luca Zaia è ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali nel IV governo Berlusconi. È il candidato del centrodestra alla presidenza della regione Veneto.
Anche il nostro stile di vita può diventare nemico dell’agricoltura, quanto meno di un’agricoltura di qualità. Mangiare non è un gesto individuale, è un «atto agricolo », ammoniva Wendell Berry, il contadino intellettuale del Kentucky che ha osato contestare il modello americano di agricoltura; un concetto che il giornalista Michael Pollan spinge ancora più in là nel suo viaggio all’interno dell’industria alimentare statunitense, affermando che è un «atto agricolo ma anche un gesto ecologico e politico».
Quello che mettiamo in pancia è l’ultimo passo di una catena che parte dalla terra, e dunque ha molto a che vedere con il modello agricolo, produttivo e alimentare che scegliamo di adottare.
La qualità è, innanzitutto, un diritto, si dirà. Invece è prima di tutto un dovere. Non è, né deve essere, in nessun luogo e in nessun caso, un lusso per pochi. Purtroppo, le cose vanno altrimenti. Se c’è un ambito in cui l’uguaglianza è pura astrazione, questo è quello dei prodotti agroalimentari. Così come non tutte le macchine rosse sono Ferrari, il cibo non è tutto uguale: «Pane al pane, vino al vino» non significa che un pane vale l’altro o che tutti i vini si somigliano. La nostra è un’agricoltura che fa delle diversità il suo punto di forza. Giustamente!
Per questa ragione io non sostengo affatto che i prodotti italiani siano diversi da quelli di altri Paesi. Sostengo che il formaggio italiano, come categoria, non esiste, perché esistono i formaggi dei territori del nostro Paese, e ognuno di essi rappresenta la sedimentazione di tradizioni, storie, culture e terre diverse. E questo è vero per tutti i 4471 alimenti del nostro Atlante dei prodotti tradizionali italiani.
In ballo vi è la questione della «qualità ». I consumatori hanno il diritto di poter acquistare la qualità a prezzi ragionevoli. I produttori, quello di avere il giusto compenso per il loro lavoro. Ed è possibile, ma non sempre accade. L’alternativa consiste nel separare i consumatori in due grandi categorie: la prima formata da chi dovrà accontentarsi dei cibi standardizzati e insaporiti solo dagli esaltatori di sapidità; la seconda, composta da chi potrà permettersi il lusso di mangiare i veri prodotti della terra.
È mai possibile che si debba tornare a distinguere le persone in classi, in base a ciò che mangiano? Ci troveremmo, in tale prospettiva, di fronte a una sorta di ingiustizia sociale vecchia che si ripresenta con aspetti inediti, destinata a manifestarsi nella condanna all’obesità sempre più precoce, connessa al consumo di prodotti preconfezionati ipercalorici, di una parte di popolazione la cui propensione all’acquisto, per limitazioni sia culturali sia economiche, è orientata alle offerte low cost dei supermercati.
Per contrastare tale tendenza, una delle battaglie che ho condotto con convinzione è stata quella per educare gli italiani a mangiare diversamente. Si deve incominciare dall’infanzia. Ogni tanto ho la sensazione – forse lo scoramento – che si tratti di campagne contro i mulini a vento.
Per quanto ci sforziamo di comunicare che cosa significhi mangiare la frutta, quella locale e di stagione, sembra una battaglia impari di fronte agli universi percettivi fantastici che promettono, nella réclame televisiva, i prodotti artificiosi e artificiali che vengono propinati ai nostri ragazzi. L’impatto sul pubblico, soprattutto quello formato dai piccoli, sortito da un calciatore che recita in uno spot televisivo ben diretto, è infinitamente più forte di qualsiasi campagna promozionale indetta dalle istituzioni pubbliche.
Naturalmente sono difficoltà che non ci esimono dal tentare di andare nelle scuole, insieme agli insegnanti, a raccontare e spiegare il valore del cibo. «Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari.»
Questo è un brano della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Ma occorre trasformare in atti politici queste parole. Le istituzioni lo devono fare, assumendosi una responsabilità che è per molti versi scomoda perché si scontra con il feticcio della libertà del mercato, con gli interessi dei grandi distributori, con la paura comprensibilissima dei più poveri di spendere di più al momento di fare la spesa. Anche gli enti locali dovrebbero concorrere al conseguimento di risultati corretti in termini di pedagogia alimentare. Magari evitando di disperdere le risorse in generiche promozioni territoriali, per agevolare piuttosto la costruzione di ponti di collegamento controllati fra produttori e consumatori. Per ricostruire il patto tra costoro è necessario rivedere le logiche di una distribuzione cieca rispetto ad alcune questioni: il diritto a una giusta remunerazione per il coltivatore; l’obbligo di una selezione di qualità e di riduzione dei passaggi nella filiera, attraverso il recupero della logica della prossimità da parte degli intermediari e della facoltà di acquistare in modo ragionato e a prezzi accessibili da parte del consumatore. C’è, infine, un altro nemico della terra: la politica sradicata.
L’Italia è davvero una strana nazione. Se si va all’estero – che so, a Barcellona o a New York – si coglie la forza straordinaria che emana dai nostri territori. Si avverte l’anima di ciò che ci rende popolari nel mondo. È un bell’abito e un buon gusto nel vestire, è l’emozione regalata dalla grande musica, è l’originalità di un patrimonio artistico e letterario unico, è la profondità di una cultura scientifica di prim’ordine. E sono anche i colori e gli odori e i sapori dei prodotti della nostra terra a dare corpo a quell’universo conoscitivo che nel mondo è noto come Italia. Quando si è all’estero ci si inorgoglisce – e non potrebbe essere altrimenti – per quell’immenso patrimonio che per tutti è il «made in Italy». Ma quando quotidianamente dobbiamo affrontare la fatica di mantenere, organizzare e promuovere il sistema complessivo di questa ricchezza, là, inevitabilmente, son dolori.
Così, accade che la terra dia frutti senza restituire reddito agli agricoltori; che l’Italia sia fra gli Stati fondatori e fra i principali contribuenti dell’Unione Europea, ma che da decenni si trovi a essere una nazione mal sopportata dalle euroburocrazie; che dovunque, dalla Vetta d’Italia alla Sicilia, si siano sfruttate le risorse ambientali fino a depauperare la terra nel profondo, senza la preoccupazione di riconoscere all’agricoltura un ruolo abbastanza importante da contrastare tali processi di erosione.
La terra, i contadini, il lavoro agricolo, le tecnologie applicate, la trasformazione dei prodotti in valore economico rischiano così di diventare una scommessa perduta. Se non cambiamo strada, e in fretta, la conseguenza inevitabile sarà di gettare al vento una delle più avanzate agricolture del mondo. Forse, senza nemmeno renderci conto che con questa scomparirà anche la civiltà che da essa nasce e di essa si nutre. Com’è che le cose vanno in questo modo? Perché la politica italiana, che pure nel secondo dopoguerra è stata capace di riconoscere per un breve periodo il valore dell’agricoltura, con riforme, investimenti e un progetto sociale ed economico, ha perso il filo per strada?
Ci sono due risposte possibili, fra di loro complementari. La prima è che la nostra classe politica, nella seconda metà del secolo scorso, abbia finito col replicare gli errori delle élite al comando in Italia dalla seconda metà dell’Ottocento, preferendo scommettere sulle grandi imprese anziché credere nel potenziale delle piccole aziende. L’economia forte del nostro Paese è quella determinata, invece, dalle piattaforme produttive territoriali garantite dalla media, piccola e perfino microimpresa.
La seconda è che la classe politica romana continui a rifiutarsi di riconoscere la pluralità di espressioni identitarie locali che sottostanno a tali piattaforme produttive e le hanno rese possibili. Così il sogno centralista è diventato un incubo per il nostro Paese, la cui vera e intima natura è quella di essere plurale.
© 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Tratto da Luca Zaia, Adottare la terra (per non morire di fame), Mondadori, pp.114, euro 17
Luca Zaia (1968) è nato a Conegliano, in provincia di Treviso. Laureato in Scienze della produzione animale, presso la Facoltà di medicina veterinaria dell'Università degli Studi di Udine, si iscrive, giovanissimo, alla Lega di Umberto Bossi. Nel 1995 è assessore all'Agricoltura alla provincia di Treviso. Nel 1998 diviene presidente della provincia, incarico che gli verrà confermato anche nel 2002. Nel 2005 viene nominato vicepresidente della regione Veneto. Nelle elezioni del 2003 e del 2008 viene eletto consigliere comunale al comune di Treviso. Dall'8 maggio 2008 Luca Zaia è ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali nel IV governo Berlusconi. È il candidato del centrodestra alla presidenza della regione Veneto.