Decreto Romani, i dubbi della rete

Politica
Il vice ministro allo sviluppo economico Paolo Romani
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Dopo l'approvazione del decreto che equipara le web-tv alle tv, la rete si interroga sulle conseguenze. Davvero internet è salva? E quale sarà la sorte di Youtube? Non mancano le perplessità.

di Floriana Ferrando

Aveva fatto scaldare gli animi al momento della presentazione, dando luogo a proteste e gruppi di contestazione in rete, tanto da portare il legislatore a modificarne intere parti togliendo le norme più controverse. Ma ora che il Decreto Romani è stato approvato i malumori non sembrano essersi sopiti e i cambiamenti apportati vengono giudicati insufficienti.

Facciamo un po’ di chiarezza. Lo spauracchio principale era il divieto per tutti i blogger, le web-tv e i siti di pubblicare filmati online senza un’autorizzazione ministeriale. Con la versione approvata lo scorso 1 marzo, molte cose sono cambiate: cade l’obbligo di autorizzazione per i motori di ricerca, i blog, i siti tradizionali, i giornali e i siti di giochi online, cioè – come si legge nell’articolo 4 del decreto – “i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale”.

Dunque sembra non ci sia più alcuna traccia di tutte quelle restrizioni che si temeva potessero minare le tante realtà amatoriali attive sul web, come i blog ricchi di video autoprodotti da privati. Eppure non tutti sono convinti che il pericolo sia davvero scampato.

Alessandro Longo
, giornalista del settore, riflette su alcune frasi un po’ fumose che aprono la strada alla libera interpretazione. Non è ben chiaro chi siano i destinatari del decreto. Si legge che sono esclusi i servizi “che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva”: ma come si fa a stabilirlo? Il decreto non tocca nemmeno “i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell'ambito di comunità di interesse”. Inevitabile pensare a You Tube, ma anche qui un dubbio resta: su You Tube non ci sono solo contenuti audiovisivi generati da utenti, il portale di video-sharing rientra o no fra le “vittime” del Ministro Paolo Romani?

Le stesse domande se le pone Giuseppe Giulietti di Articolo21.info, quotidiano online per la libertà d’espressione, che sottolinea un’altra ambiguità: l’articolo 6 lascia all’Agcom, l’Autorità garante per le garanzie nelle comunicazioni, il ruolo di arbitro, di sceriffo del web. Ed ecco che ritorna il rischio di filtri e oscuramenti.

L’Associazione Italiana Internet Provider
ha divulgato un comunicato stampa per esprimere la sua preoccupazione. In termini di responsabilità, l’AIIP è sconcertata per la mancanza di riferimenti a quelle norme basilari del mondo digitale che tutelano chi fornisce l’accesso e si limita a trasportare i “pacchetti di dati”. Stando al decreto, sia l’Internet Provider che il Service Provider sono potenziali responsabili editoriali, persino in caso di violazione del diritto d’autore compiuto da terzi tramite audiovisivi.

Anche Stefano Quintarelli, esperto di tlc, sul suo blog tira in ballo la responsabilità editoriale, e in questo panorama è inevitabile pensare alla recente condanna di Google.

Lorenzo Ajello vede poca chiarezza a proposito delle sorti di YouTube. La piattaforma di video sharing più celebre del web potrebbe essere considerata come un servizio media audiovisivo a richiesta, quindi soggetto al decreto.

Mentre l’avvocato Guido Scorza teme anche per il futuro dei blog: “Un video blog di modesto successo che raccolga pubblicità e che possa considerarsi - per quantità e qualità dei contenuti - in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, dunque, è un servizio media audiovisivo e rientra nell'ambito di applicabilità della nuova disciplina”.



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