Volkswagen, la crisi di un'azienda spiega quella di un modello intero

La crisi del comparto automobilistico continua ad agitare la Germania e il gruppo Volkswagen e i sindacati si dicono pronti alla “più lunga battaglia di contrattazione collettiva che il settore abbia mai visto”. La più grande casa automobilistica europea ha annunciato la chiusura di tre dei dieci stabilimenti in Germania, migliaia di licenziamenti e riduzione del 10% degli stipendi. Manovre, quelle promosse dal Ceo Oliver Blume per cercare di superare la crisi, che hanno già causato una prima ondata di scioperi, che proseguirà la prossima settimana. Iniziative volte a mettere sotto pressione i vertici dell’azienda mentre si aprono le trattative con la rappresentanza sindacale, in un clima teso e all’ombra della campagna elettorale in un Paese che vede messo in discussione il suo modello di sviluppo. Un modello in affanno La crisi dell’auto tedesca è infatti il frutto avvelenato di un modello di crescita fondato su presupposti che non hanno retto alla prova del tempo. Berlino contava, innanzitutto, sulla capacità di poter crescere economicamente sfruttando il potenziale esportatore della sua azienda favorito dalla moderazione salariale e dai bassi costi dell’energia. Ebbene, la guerra russo-ucraina e la susseguente crisi energetica da un lato e l’alta inflazione dall’altro hanno, al tempo stesso, alzato i costi dei fattori produttivi per le aziende, compresso la fame di beni tedeschi nei mercati esteri e prodotto dure tensioni interne, soprattutto nell’Est del Paese meno sviluppato e più fragile. La Germania, inoltre, ha subito duramente la conflittualità geopolitica tra Occidente e Paesi rivali che ha tagliato l’accesso al mercato russo e condizionato quello alla Cina. Un Paese che a lungo ha fatto del commercio il punto focale della sua agenda politica si è trovato catapultato in un contesto che vedeva la conflittualità economica e geopolitica dettare anche le regole anche nel settore degli scambi. Volkswagen, nell’ultimo decennio, se n’è accorta più volte: dal Dieselgate americano all’emergere della competizione con l’auto elettrica cinese, l’azienda ha subito scossoni tutt’altro che indifferenti. E la gelata del mercato europeo dell’auto, nell’ultimo biennio, ha fatto il resto. Ripercussioni politiche La crisi di Volkswagen chiama la crisi tedesca, e in un Paese in recessione industriale diventa un argomento di campagna elettorale. Di recente l’alleanza di governo formata da socialdemocratici , Verdi e liberali è collassata, e il cancelliere Olaf Scholz ha visto la crisi economica giocare un ruolo decisivo nell’accelerare la fine della “coalizione semaforo” nata nel dicembre 2021. Al momento della sua formazione, l’accordo di governo univa tre formazioni che avevano mostrato la volontà di consolidare un modello ritenuto perfezionabile ma ancora valido. La Spd chiedeva più sicurezza sociale per i lavoratori e salari più alti; i Verdi un rilancio della transizione green; la Fdp la difesa della competitività delle imprese tedesche in Europa e la riduzione della pressione fiscale. Tutti, però, condividevano l’idea che il modello trainato dalle esportazioni, e associato alla centralità del settore auto, sarebbe rimasto vincente per la crescita tedesca. Al massimo, si pensava che il perno del settore sarebbe passato a tecnologie green come l’auto elettrica, di cui si puntava a mantenere la leadership. Gli stravolgimenti degli ultimi anni però hanno costretto i partiti a una radicale revisione di queste previsioni. Ad andare in crisi è stato lo stesso sistema costruito e difeso nell'ultimo ventennio dalla Spd e, soprattutto, dall'Unione Cristiano-Democratica a lungo guidata da Angela Merkel. La stessa Cdu che oggi vola nei sondaggi ma non può non interrogarsi sul futuro di un’industria tedesca intrappolata tra varie crisi strutturali. Le tensioni e l’insoddisfazione legate al cortocircuito di questo modello industriale potrebbero giocare un ruolo importante al voto anticipato di febbraio. Alle elezioni Cdu e Spd dovranno vedersela con la critica da sinistra del Bsw, l’Alleanza Sahra Wagenknecht, e soprattutto quella da destra di Alternative fur Deutschland, che da tempo contestano i partiti al potere su economia, industria e svolta green. “Negli ultimi anni, la simultaneità della crisi climatica e della battaglia per il futuro dell'industria automobilistica e di centinaia di migliaia di posti di lavoro si è rivelata una combinazione esplosiva”, ha scritto in un paper la Fondazione Rosa Luxembourg, evidenziando lo spostamento a destra di importanti masse di voti “nelle regioni produttrici di automobili di Sassonia, Baden-Württemberg, Assia e Bassa Sassonia”. La crisi industriale è già profondamente politica, e un suo prosieguo sarà un fattore di condizionamento nelle prime elezioni anticipate della storia tedesca dal 2005 a oggi.

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