Rock & Wall, 7 ottobre 1969: la prima pietra contro il Muro di Berlino. Podcast 1

Mondo

Nicola Ghittoni

Cinque date, cinque concerti, cinque storie nella cornice della grande Storia. Un viaggio tra le note che hanno fatto da colonna sonora ai sogni, alle speranze e alle battaglie di una generazione cresciuta all’ombra del Muro. Capitolo primo

Podcast Sky Tg24 in collaborazione con Radio 24 - Il Sole 24 Ore

Il primo concerto ad aprire una breccia nel muro di Berlino è un concerto che non è mai avvenuto. È il figlio illegittimo della paranoia, e di uno scherzo. Creato da un giullare, allevato da un re, cullato dalle onde radio. Il giullare, innanzitutto: si chiama Kai Bloemer, porta una frangetta bionda, ma questo dettaglio, nel 1969, sono in pochi a conoscerlo. I giovani – quelli da una parte e dall’altra del Muro – conoscono invece molto bene la sua voce: Kai è uno dei Dj che conducono Treffpunkt (“Punto d’incontro”), trasmissione tra le più amate nella programmazione della RIAS.

Onde ribelli

La sigla sta per Rundfunk Im Amerikanischen Sektor: è l’emittente radio fondata dalle forze di occupazione americane nel 1946, dopo la divisione in blocchi della capitale. La sede è nel quartiere di Schoeneberg, a pochi isolati dalla piazza in cui nel giugno del 1963 J.F. Kennedy pronuncia la frase “Ich bin ein Berliner”. Ma questo ci interessa poco. Più importante dell’edificio che ospita gli studi della radio è il luogo dove viene trasmesso il suo segnale: si trova qualche chilometro più a sud e –  soprattutto – più ad est, nel quartiere conosciuto come Britz, nell’area di Neukölln. È qui che due antenne alte più di 100 metri riescono a contrabbandare ai giovani di oltre-cortina emozioni e trasgressioni in onde corte, onde medie e in FM. Già da quattro anni in Germania Est è stata messa al bando la musica beat straniera, dopo la scomunica contro “L’immondizia musicale dell’Ovest” e la “Monotonia dello Yeah yeah yeah” pronunciata con espressione serissima e tono inflessibile dal Primo segretario del Partito Socialista Walter Ulbricht durante il Plenum del Comitato Centrale nel dicembre del 1965.

Bene, abbiamo conosciuto il giullare, veniamo ai fatti. Siamo nel settembre del 1969. Qualcuno starà ancora ripulendo le ultime cartacce dalla tenuta di Bethel che ha da poco ospitato il Festival di Woodstock. Gli Who e Joe Cocker si sono appena concessi un bis, suonando anche all’isola di Wight. John Lennon sta comunicando ai Beatles l’intenzione di lasciare il gruppo. E Kai Bloemer, dal chiuso del suo studiolo a Schoneberg, avvicina le labbra al microfono e dice: “Immaginate se il prossimo 7 ottobre il Rolling Stones tenessero un concerto sul tetto della casa editrice Springer e anche i giovani di Berlino Est potessero ascoltarlo”. Ok, forse non è neanche uno scherzo. Magari solo un suggerimento, di certo un auspicio. Neanche tanto strampalato, poi. In fondo, solo pochi mesi prima, in una fredda giornata di fine gennaio, i Beatles hanno fermato il traffico nel centro di Londra per suonare sul tetto degli uffici della loro casa discografica, per quella che è poi rimasta nella storia come la loro ultima esibizione dal vivo. E allora è così strano immaginare che i loro amici/rivali di sempre, gli Stones, vogliano in qualche modo raccogliere il guanto di sfida? Comunque sia, quali che siano le reali intenzioni del giovane Kai, è dai tempi dell’invasione aliena raccontata da Orson Welles che una fantasia radiofonica non produce effetti così devastanti nella realtà: cariche di polizia, quasi 400 arresti, decine di feriti. Ma come si arriva a tutto questo? È qui che entra in scena il nostro re. E la paranoia del regime. Innanzitutto, tenete bene a mente la data del concerto: 7 ottobre. Non è un giorno qualsiasi. È una data speciale, a oriente del Muro: è il giorno in cui si festeggia la nascita della Repubblica Democratica Tedesca. Lo sanno tutti. Neanche un giovane speaker radiofonico occidentale lo può ignorare. Di certo non lo ignora la Stasi, il Ministero per la Sicurezza di Stato della DDR. E lo sa bene anche Axel Springer, il sovrano della nostra storia, mentre osserva Berlino Est dalla finestra del suo ufficio in Kochstrasse, a Kreuzberg.

Il tetto che scotta

È in questa strada a quattro passi dal Muro, una terra di nessuno a un isolato dal Checkpoint Charlie, che ha voluto spostare il suo regno, costruire il suo castello. Lui, nato sulle rive dell’Elba, cresciuto ad Amburgo, erede di una casa editrice che trasforma in un impero. Di secondo nome fa Cesare, in tedesco suona Kaiser. Il suo fiore all’occhiello è il quotidiano popolare Bild, il suo principio ispiratore è l’anticomunismo, la sua missione è rivedere la Germania unita. Per questo, alla fine degli anni ’50, decide di trasferire il quartier generale a Berlino Ovest. La costruzione improvvisa del muro, che spaventa altri imprenditori e li fa scappare verso Monaco o Francoforte, non fa che rafforzare questa sua ossessione: il grattacielo della Axel Springer sorgerà accanto al confine tra i settori americano e sovietico, come un monito, come una sentinella. Affida il progetto a un architetto italiano, Melchiorre Bega: ha appena terminato la Torre Galfa, nuovo fiore di cemento alluminio e vetro piantato nello skyline di Milano. Springer apprezza quelle linee essenziali, squadrate, tracciate verso il cielo. È convinto: i berlinesi a spasso per la vicina piazza di Spittelmarkt dovranno alzare gli occhi e vedere qualcosa di simile, e magari sognare un nuovo orizzonte. Nel 1966 i lavori sono ultimati: Springer ha 54 anni ed è un monarca nel pieno dei poteri, con 10mila sudditi alle sue dipendenze. Per l’inaugurazione invita l’allora sindaco (e futuro cancelliere) Willy Brandt e sceglie una data non certo a caso: è il 6 ottobre, vigilia di festa nazionale per i vicini dell’Est. Come a dire: “Sono arrivato; festeggiate pure domani, ma sappiate che da oggi vi tengo d’occhio”. Esattamente tre anni dopo, il 6 ottobre 1969, molti in città stanno dormendo sonni agitati: ora che conoscete la storia del piccolo Cesare, di Springer, vi stupirebbe davvero se si prestasse a ospitare un assordante dispetto agli odiati vicini? Di certo non chiudono occhio gli agenti della sicurezza interna: la frase di quel Dj dell’Ovest ha messo in moto nel Paese un’onda sotterranea che si sta muovendo verso la capitale, e che va arginata a tutti i costi.

Andiamo a Berlino!

Del resto, il Muro può fermare le persone ma non le note, neanche quelle proibite. Il beat occidentale ha varcato le linee nemiche e pulsa ormai da anni nelle stanze dei giovani di Berlino Est. Hard rock e “Soft power”. Il regime prova a smentire: non è in programma alcun concerto. Risposta? Su strade e muri di varie città spuntano scritte col gesso di fan pronti a mettersi in viaggio per ascoltare i loro idoli. Non si sa se i ragazzi credano davvero alla possibilità di assistere a un concerto dei Rolling Stones, o se sia la semplice voglia di crederci a muovere i loro passi. Di certo sono già da tempo abituati a non dare troppo credito alle versioni ufficiali. Il dado è tratto: Kai ce l’avrà fatta, la musica è passata. Ora gli ingredienti (per una molotov) ci sono davvero tutti: una data simbolica, un palcoscenico allestito quasi in cielo sopra Berlino, la più famosa rock band del pianeta. Già, la band. Gli Stones, in tutto questo, dove sono? Di certo non a Berlino. Hanno da poco pianto la morte del chitarrista Brian Jones con la più sontuosa celebrazione funebre della storia del rock, un concerto gratuito ad Hyde Park, Londra (sontuosa e involontaria: l’esibizione era già in programma, e Jones era già stato fatto fuori dal gruppo: ha avuto solo il tempismo di morire due giorni prima dell’appuntamento). Si stanno preparando per una tournée americana che deve partire a novembre, e che passerà alla storia per il tragico concerto di Altamont. Del loro presunto “rooftop concert” berlinese non sanno nulla, come è normale che sia. Del resto lo sa anche la polizia della DDR che è tutta una bufala; ma come abbiamo già detto, questo ormai non conta più nulla.

Street fighting men

Gli archivi della Stasi documentano in centinaia di pagine la follia di quelle ore: le strade sbarrate, i posti di blocco, le perquisizioni sui treni in arrivo in città. E poi la repressione. Spietata, brutale. I giovani che dalla Porta di Brandeburgo si muovono verso Spittelmarkt vengono affrontati a colpi di manganello dalla polizia. Sono centinaia, mossi da una notizia falsa ma da una vera speranza. Qualcuno grida “Freiheit!”, libertà, ma viene messo a tacere: il 20esimo anniversario della nascita della Repubblica non può essere macchiato da un gruppo di mocciosi fanatici del rock, ed è lo Stato a decidere quale e quanta libertà concedere ai suoi cittadini. Il bilancio finale parla di 383 arresti, ma nel sapore amaro della sconfitta si intuisce un retrogusto dolce: qualcosa si è rotto, qualcosa sta cambiando, qualcosa non sarà più come prima. You can’t always get what you want. But if you try sometimes… Negli stessi istanti in cui decine di giovani berlinesi sono lasciati in terra a sanguinare, Mick Jagger e compagni si trovano chissà dove, forse in sala prove, forse a limare gli ultimi dettagli dell’album “Let it bleed”, in uscita il 28 novembre, in pieno tour americano. Senza volerlo, senza neanche saperlo, hanno appena scagliato il primo sasso contro il Muro.

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