2026, la resa dei conti

Dopo anni segnati da tensioni, conflitti ed elezioni, il 2026 potrebbe essere l'anno in cui i nodi - molti, se non tutti - verranno al pettine. Le condizioni di partenza sono costanti: le tensioni tra le grandi potenze e i conflitti regionali a lunga durata, all’interno di un mondo sempre più caratterizzato da alleanze a geometrie variabili, insieme agli impatti immediati del cambiamento climatico e a una transizione tecnologica che ridefinisce alleanze e vulnerabilità. Breve dizionario delle sfide da tenere d’occhio, e dei possibili sviluppi da anticipare. A come Alt-Right Alternative für Deutchland in Germania, Rassemblement National in Francia, Reform UK nel Regno Unito. E non solo loro. In tutta Europa i partiti di estrema destra guadagnano terreno, ma sono state e saranno le elezioni – più o meno locali, più o meno anticipate – in questi tre paesi a fotografare, o bloccare, l’onda nera che si sta alzando. In Germania l’AfD chiude il 2025 al 26%, un punto percentuale in più della CDU del cancelliere Friedrich Merz, massimo storico e sua prima volta da primo in classifica; lo scorso settembre ha espugnato l’Ovest vincendo in Renania Settentrionale-Vestfalia, il Land più popoloso e cuore dell’industria tedesca; nel 2026 molti altri Land andranno al voto: i rapporti di forza sono tutti sotto osservazione. Francia e Regno Unito invece ballano sul filo di possibili elezioni anticipate, ma entrambe vedono in testa ai sondaggi partiti che un tempo erano avvolti da un cordone sanitario, e che ora sono considerati probabilità sempre più concreta per il prossimo esecutivo. Per Marine Le Pen portare il paese ad elezioni anticipate, creando il primo governo del RN, è l’unica speranza di ottenere quell’amnistia che le permetterebbe di correre per l’Eliseo nel 2027, magari vincendolo, complici anche le tensioni geopolitiche ed economiche con lo spread sempre più alto. Per Nigel Farage invece la partita si gioca più sul lungo periodo. Una “snap election” rimane nelle carte di un Labour sempre più in difficoltà, con l’uomo della Brexit unico in grado in questo momento di capitalizzare le insoddisfazioni e le frustrazioni legate alle promesse mai mantenute, e alle difficoltà sempre più contestuali. B come Brasile Il 4 ottobre il paese verdeoro tornerà al voto per eleggere il successore di Luiz Inacio Lula da Silva, e con lui sceglierà anche il proprio posizionamento internazionale in un contesto geopolitico sempre più a “geometrie variabili”. Due i fattori da tenere in considerazione. Da una parte il nome degli sfidanti, con Lula probabile contendente e il centrodestra ancora in cerca d’autore, anche se Tarcísio de Freitas, attuale governatore dello Stato di San Paolo, sembra il candidato più plausibile; dall’altra parte, la presenza e il ruolo che vorrà giocare l’ex presidente Jair Bolsonaro, definitivamente condannato per i fatti del gennaio 2023 ma ancora estremamente influente. La posta in gioco è a 360 gradi; le politiche interne, così come il ruolo che Brasilia vorrà e saprà giocare sul tavolo geopolitico mondiale, con Lula a sostenere un “attivismo multilaterale” che parte dai BRICS e arriva fino a Washington e Bruxelles. C come Cina Il “secolo cinese” supera il suo primo quarto, e Pechino ancora non ha deciso se occupare del tutto il ruolo da protagonista che le dovrebbe spettare. Così se la sua leadership in campo economico, tecnologico ed energetico è indiscutibile, e le sue ambizioni militari e regionali più volte ribadite, la sua presenza su altre scacchiere come ad esempio quella africana è caratterizzata dalla penetrazione economica, e contemporaneamente dalla volontà di non intervenire in prima persona e in maniera diretta sui fronti più caldi e meno “lineari”– in primis quello ucraino. Uno stile che fino ad ora ha permesso a Xi Jinping di concentrarsi sui dossier interni, ma che non è detto possa essere sufficiente anche per le sfide del futuro, a partire da quella legata a Taiwan. Così il 2026 sarà probabilmente segnato dalla “tregua armata” firmata a Busan da Xi e Trump lo scorso novembre in campo commerciale, e dalle visite che i due leader si pagheranno rispettivamente tra aprile e l’autunno: una finestra di tempo importante per provare a negoziare un’intesa più profonda e duratura – mentre gli ingredienti dello scontro rimangono tutti, ancora, sul tavolo. E come Europa unita Storicamente l’Europa unita avanza in risposta alle crisi, e il covid lo ha dimostrato. Ma in passato bastava un, pur importante, sforzo di volontà; questa volta, il Vecchio Continente ha bisogno della volontà politica, e soprattutto della capacità strategica di reagire a pressioni esterne che, complici antenne interne, lavorano per vederne la disgregazione. Vladimir Putin con l’invasione dell’Ucraina e la visione dell’Europa come minaccia ai confini, e Donald J. Trump con una Strategia di Sicurezza Nazionale che accusa l’Unione europea di minare la libertà politica e la sovranità e un MEGA in lavorazione, possono contare sui partiti diversi ma uniti dall’insoddisfazione nei confronti di Bruxelles, incapace di un colpo di reni sempre più necessario – ma spesso impedito dagli stessi governi nazionali. Se Bruxelles non dovesse essere in grado di reagire dimostrandosi alle sfide dei prossimi mesi, che siano quelle della Difesa Comune o della Ripresa Economica, il sogno dei Padri Fondatori nato sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale potrebbe essere definitivamente a rischio. G come Gaza Firmato il cessate il fuoco, nella Striscia di Gaza le condizioni umanitarie restano proibitive, peggiorate dal meteo invernale. Mancano le tende, manca l’elettricità, mancano cibo e acqua potabile, mancano le medicine. I neonati muoiono per il freddo, intere generazioni sono perdute. La seconda fase della tregua richiede la risoluzione di una serie di nodi, dallo status della linea gialla dentro Gaza alla governance, passando per il mandato e la composizione della forza internazionale e il disarmo di Hamas. Tutto questo diventa, con il nuovo anno, materia di campagna elettorale – quella che vedrà Israele impegnato per tutto il 2026; e di negoziato tra potenze regionali e globali. Nel frattempo, la ricostruzione rimane una parola senza significato. Se non per le due milioni di persone che la aspettano, vivendo tra le macerie. Ancora una volta tradite. H come Hamas ed Hezbollah Quelli che un tempo erano i due principali proxy iraniani entrano nel nuovo anno profondamente indeboliti dopo le guerre scatenate dagli attentati del 7 ottobre, ma non per questo sradicati. Certo, Teheran non ha più la forza economica e politica che negli anni aveva garantito loro una potenza militare e politica sul territorio; ma le azioni di Israele hanno comunque concimato il terreno su cui sono cresciuti negli anni, fornendo loro un buon numero di sostenitori, in patria e all’estero. Sostenitori più numerosi però tra le opinioni pubbliche, che li vedono come l’unica forza in grado di contrapporsi ad Israele, che non tra i vari governi musulmani ed arabi. Anche per questo ad esempio in Libano tardano ad arrivare i soldi necessari per la ricostruzione; mentre il futuro della Striscia di Gaza passa per un disarmo che Hamas non vuole concedere. Il modo in cui decideranno di reagire sarà dirimente, ma impossibile da anticipare. I come Israele In autunno, probabilmente ad ottobre, il paese andrà al voto, esattamente 3 anni dopo gli attentati del 7 ottobre, e a circa 1 anno dalla firma degli accordi di Sharm-el-Sheik. Un paese che è spaccato, e che difficilmente guarirà grazie alle elezioni; tra le domande che cercheranno risposte nelle urne il futuro di Benjamin Netanyahu e quello della destra messianica, e con loro anche il futuro di un processo di pace che al momento non sembra neanche in vita. M come Midterm Il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di un terzo del Senato degli Stati Uniti, oltre ad una serie di Governatori, sarà il leit motiv della politica a stelle e strisce nel 2026. Come per tutti i Presidenti in carica prima di lui, per Donald J. Trump sarà difficile capitalizzare il voto di metà mandato, e questo con ogni probabilità lo porterà ad alzare ulteriormente toni e contenuti della sua azione di governo. Allo stesso tempo sembra destinata a crescere la radicalizzazione del dibattito politico nel paese. Le vittorie di New York City e Miami, insieme ad una serie di altre consultazioni locali, hanno acceso i riflettori sulla “corrente” socialista del partito Democratico; le elezioni di novembre faranno capire se sia, quella, l’unica alternativa concreta presente all’interno del partito dell’Asinello, o se esista ancora quell’anima centrista che aveva in Joe Biden il proprio Campione. O come ONU È difficile ricordare anni più difficili per le Nazioni Unite. Non perché in passato siano mancate le guerre, ma perché mai come in questi ultimi anni il Palazzo di Vetro si è rivelato incapace anche solo di offrire un palco su cui far andare in scena le diverse posizioni. L’incarico di Antonio Guterres terminerà il 31 dicembre 2026 facendo di lui, in questi 12 mesi, un’”anatra zoppa” al termine di un secondo mandato in cui comunque non ha saputo esercitare una leadership, figura che brilla per assenza in tutti i negoziati in corso. Trovare un successore in grado di dare nuova linfa a un ruolo che invece mai come adesso sembra fondamentale, mentre si discute anche di riforma del Consiglio di Sicurezza e di nuovi equilibri da riconoscere, dovrebbe essere una priorità per le democrazie. P come Putin Lo “Zar” ha detto di aspettarsi un 2026 “di guerra”. I suoi oppositori, un 2026 “da incubo”. Nel frattempo, nei prossimi 12 mesi cadranno gli anniversari dei 35 anni dalla fine dell’Unione Sovietica, i 10 anni dall’assassinio di Anna Politkovskaja e a settembre le elezioni per il rinnovo della Duma – elezioni sul cui risultato nessuno ha alcun dubbio e che, pure, potrebbero rivelarsi più interessanti del previsto se dovessero diventare, per il Cremlino, la data entro la quale presentare i risultati della “operazione speciale” iniziata in Ucraina nel 2022 stimolando quindi la ricerca di un accordo. Nel frattempo, il regime di Putin rimane incontrastato, almeno visto dall’esterno, e nonostante le difficoltà economiche e sociali crescenti. Gli oppositori più forti e rappresentativi sono tutti all’estero; la morte di Andrei Navalny ha eliminato l’ultimo avversario in grado di fare paura al Presidente, e la mancanza oggi di un’opposizione realmente unita e di un leader riconoscibile sono fattori che rafforzano ulteriormente il regno di Putin. T come Taiwan Molti analisti individuano nel 2027, se non addirittura nel 2028, l’anno in cui Pechino concretizzerà le sue minacce e tenterà la “riunificazione”, complice il 100mo anniversario dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese e la probabile rielezione di Xi Jinping alla guida del Paese. Ciononostante la “questione Taiwan” rimarrà sotto i riflettori anche nei prossimi mesi, soprattutto perché termometro degli equilibri nella regione, pesantemente influenzati da due leadership – quella di Taipei come quella di Tokyo – inclini a un forte riarmo e a una postura più “muscolare” nei confronti di Pechino proprio mentre Pechino “flirta” con Washington. U come Ucraina Quattro anni dopo l’invasione da parte della Russia, il 2026 potrebbe essere l’anno del cessate il fuoco, o anche – ancora – un anno di guerra. Gli interrogativi che accompagnano i negoziati “mediati” dal presidente americano Donald J. Trump sono conosciuti: futuro dei territori, e delle popolazioni, che Mosca rivendica; garanzie di sicurezza per Kiev; origine dei fondi per la ricostruzione; amnistia reciproca. Ma non sono gli unici nodi che dovranno essere sciolti. L’Ucraina dovrà anche decidere, probabilmente negli ultimi 12 mesi e per la prima volta dal 2019, una nuova leadership politica. E non è detto che Volodymyr Zelensky, nonostante una Tangentopoli che ha travolto il suo “cerchio magico”, non possa essere confermato Presidente. Secondo un sondaggio condotto tra il 26 novembre e il 13 dicembre dal Kyiv International Institute of Sociology e rilanciato da Ukrainska Pravda e The Kyiv Independent, infatti, Zelensky godrebbe della fiducia del 61% degli ucraini, mentre il 32% invece ne boccerebbe l'operato. V come Venezuela. Il Venezuela di Maduro è stato, nel 2025, il primo banco di prova del Corollario Trump alla Dottrina Monroe come enunciato nella Strategia di Sicurezza Nazionale statunitense poi pubblicata a dicembre. L’evoluzione della situazione nelle acque caraibiche, così come le decisioni che prenderà il governo Maduro, creeranno il precedente di riferimento per l’Amministrazione Trump. Allo stesso tempo, se Maduro dovesse fare un passo indietro più o meno spontaneamente, il paese potrebbe cadere in un altro momento di instabilità politica dopo quello vissuto recentemente con i “due Presidenti”, un momento che non necessariamente potrebbe completarsi con la salita al potere di Maria Corina Machado – che, a proposito di spinte esterne, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace 2025.

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Liliana Faccioli Pintozzi